Associazione Dina Vallino

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Il lutto: riflessioni autobiografiche

di Dina Vallino

Pubblichiamo due brevi inediti di Dina Vallino del 1971, il primo scritto immediatamente dopo la morte del padre, il secondo qualche mese dopo. Si tratta di quattro fogli manoscritti che risalgono a quando l’analista aveva trenta anni, riceveva una analisi kleiniana da due anni, conosceva il saggio di Freud sul lutto, alcuni libri di Klein e di Bion. In quel frangente stava studiano uno dei libri – oggi dimenticato – che più suscitò interesse all’epoca in ambito non soltanto psicoanalitico: “Germania senza lutto: analisi del post-nazismo” di Mitscherlich. Questi inediti rivelano pienamente lo stile di autoanalisi di Dina Vallino, adottato per tutto il corso della sua vita: ella interpreta i suoi vissuti alla luce delle teorie psicoanalitiche che viene apprendendo dai suoi studi e dall’analisi e, per converso, viene modificando, alla luce dei propri vissuti, le nozioni apprese. Beninteso, qui il lavoro di rivisitazione della nozione di elaborazione del lutto adulto risulta ancora aurorale.

Tratto da:
Archivio Dina Vallino II.2.6 fasc.4

Il lutto e gli oggetti interni

La situazione di lutto apre per l’adulto uno sguardo sull’abisso: sul proprio mondo infantile e di conseguenza sull’inconscio.

Dopo la morte di mio padre pensai subito a mia sorella che era stata avvertita di venire in ospedale. Abbandonai il reparto e la soglia della porta della stanza entro la quale stavano vestendo mio padre e scesi di fretta quelle scale per precedere la suora nell’annuncio che doveva dare a mia sorella. Fuori erano le aiuole del Policlinico, le folle dei parenti con le borse che aspettavano l’entrata per la visita ai loro ammalati; il sole era tiepido e mi pareva particolarmente dolce. Alcuni malati in pigiama passeggiavano lungo i viali; gli infermieri preparavano una chiesa con addobbi vivaci per una cerimonia domenicale. Ogni malato mi pareva parte di mio padre vivo. Lui aveva lasciato se stesso in quelle persone, lui era anche lì eppure non c’era più... e il sole era così tiepido e la vita sembrava scorrere dolcemente con la speranza. Da dove veniva quella speranza, visto che mio padre non c’era più ed io non avevo più alcuna protezione? Prima mi sedetti per terra, come ad appoggiarmi, poi cominciai a percorrere lentamente quel viale. Vidi mia sorella sola tra quella folla di parenti che non poteva ancora entrare, mentre noi eravamo state privilegiate dalla perdita, e aveva, mia sorella, due pesanti borse, cariche di cose per babbo.

La vidi piccola, piccolissima, di tre anni; com’era quando babbo era partito(1). Le corsi incontro e da allora la relazione con mio padre perduto si allacciò strettamente alle relazioni con i miei cari, in una maniera diversa da quella che aveva preceduto la sua assenza.

Nella notte mi sveglio ora diverse volte, ininterrottamente, per periodi di tempo costanti. Probabilmente il ricordo di mio padre affolla la coscienza dall’ inconscio, provocando emozioni così violente da impedire il ricordo stesso e cioè l’integrazione affettiva della figura di mio padre vista come nucleo unico della mia memoria. Inoltre l’assenza attuale di mio padre mi dà per alcuni momenti la sensazione che il passato sia una realtà onirica e che egli forse non sia mai esistito. Non saprei descrivere meglio questa impressione: essa è molto confusa e molto distruttiva.

In altri momenti invece mio padre mi appare nella voce sua, e come in una specie di presenza alone dietro di me, come mai lontano e sempre presente. In questi momenti egli mi parla.

Due parti del Sé investite dal lutto

La morte di mio padre mi ha fatto capire che era la mia parte infantile, piccola, che piangeva e si sentiva abbandonata; l’altra parte (adulta) rimpiange l’uomo amico e padre che non può più vivere, pur avendo tanto amato la vita, e che non ha avuto tutto quello che la vita gli aveva promesso.

Il lutto offre un modello unico di vissuto intrapsichico per la comprensione di certe caratteristiche del rapporto tra l’io e gli oggetti interni e tra la vita conscia e la vita inconscia.

Avviene qualcosa simile a una rottura della barriera che si era costituita tra la coscienza e l’inconscio e che ora lascia libero accesso alle vive emozioni della infanzia e al gioco delle parti interne che precedentemente alla morte della persona amata erano state scisse e costituivano i nuclei inconsci dell’Io. La perdita dell’oggetto amato porta a rivivere in una nuova e arcaica messa a fuoco tutte le relazioni precedenti che si erano costituite tra il Sé e l’oggetto amato e tra il Sé e l’oggetto amato e tutti gli altri oggetti che fanno parte della vita psichica inconscia. Una parte della pena psichica, riapertasi durante il lavoro del lutto, viene a formare la base dei ricordi della persona amata e perduta: essa è a fondamento della memoria di amore, gratitudine e dolore verso chi non c’è più.

Il riemergere in primo piano della vita infantile comporta infatti un disinvestimento momentaneo, ma periodico, del mondo esterno, inteso come mondo delle relazioni oggettive (intersoggettive). Si può anzi dire che il mondo delle relazioni interne prende il posto del mondo delle relazioni esterne di commercio quotidiano con il prossimo. Si accresce, nella situazione migliore di elaborazione del lutto, la profondità dei sentimenti, e quindi i nuclei dei legami con gli altri. Da qui, dalla morte, la rinascita, in compagnia costante dell’oggetto, di nuove capacità di comprensione dei molteplici legami con le altre persone; da qui ad es. un’accresciuta sensibilità per l’arte, la cultura e anche per i bisogni e i desideri degli altri.

Si può invece ipotizzare che un lutto non elaborato comporti una sostituzione del mondo interno al mondo esterno e una grave difficoltà a realizzare la comprensione delle relazioni esterne (intersoggettive). L’individuo può agire a difesa dei ricordi spiacevoli del morto, e degli elementi di persecuzione collegati all’idea del morto, tramite una condotta di negazione della morte (2).

 

Importanza della qualità soggettiva della relazione oggettiva

L’esperienza della perdita dell’oggetto amato connessa alla morte di una persona amata offre un modello per comprendere lo sviluppo del pensiero. La morte è un attacco al legame con una persona cara, al quale l’individuo non si subordina facilmente. L’individuo in risposta alla sofferenza lascia rivivere nel ricordo, dentro di sé, l’oggetto amato. Tuttavia la ri-creazione dell’oggetto, ormai diventato oggetto interno, dipende dalla natura dei rapporti che erano intercorsi in vita tra la persona amata e colui che rimane.

La natura di questi rapporti può essere di conflitto e allora 1a persona morta potrà venire ricordata come una persona che rimprovera aspramente, o a cui si rimprovera l’abbandono precoce; in tal caso parte della persecuzione e del rimorso possono venire proiettate in altre persone, dotate di caratteristiche tali da rendere possibile il sentirsene perseguitati.

Oppure la natura dei rapporti fra la persona amata e colui che rimane è improntata a tenerezza e fiducia; in questo caso il legame interiorizzato è costituito da caratteristiche di protezione e presenza nella persona che rimane.

 

Qualità del commiato

Un evento che può emergere in occasione della perdita della persona amata è la sensazione “di non avere avuto abbastanza tempo”.

Io ad esempio lo vivo come immagine di babbo in ospedale che sta seduto ascrivere o in quel ricordo di babbo impallidito, dopo la conversazione con noie il suo stendersi sul letto, accompagnato da quello che posso dire il suo ultimo sguardo, che era già, penso, un saluto a me di mio padre prima di morire.

Non abbiamo avuto tempo di salutarci, ecco quale è stato il mio tormento e la natura più intima ed aspra della parte che mi rimprovera di non avere capito...

Fare in tempo per che cosa?

Fare in tempo è fare in tempo a non lasciare soli, a riparare la persona che si è perduta dagli attacchi fatti in precedenza; dal non avere capito abbastanza, quando si sente che il non-pensiero è un attacco al legame, un modo per rifiutarsi e per rifiutare, un modo di mettere da parte il padre perduto. La morte non comporta restaurazione, rende impossibile la riparazione.

Dopo la morte di babbo, qualche giorno dopo, avevo come l’impressione che si fosse dissolto quell’anfratto di protezione che erano le spalle di mio padre o meglio il suo braccio, che copriva le mie spalle e mi teneva caldo nelle sere d’inverno quando uscivamo insieme dal ristorante. Non ci sarebbe più stato con la sua presenza imponente ad aspettarmi fuori dal portone di piazza Bertarelli, e dire che io lo facevo sempre aspettare... La presenza di mio padre mi incuteva sempre uno stato di allegria come di voglia di ridere. Non lo avrei più sentito entrare col suo passo lento e la sua voce roca, non l’avrei rivisto MAI PIÙ.

Era un uomo che sapeva aspettare, mio padre, e di lui ho scelto la foto in quella sua posa d’attesa: pacifica, forte e di speranza, senza neanche troppa fiducia a dire il vero...

 

Il lutto e il distacco della libido dall’oggetto amato

La morte di mio padre ha prodotto una reminiscenza di tutti i rapporti infantili familiari: la relazione con mia madre, mia sorella e lui.

Freud in Lutto e melanconia sostiene che il lavoro del lutto riguarda il ritiro della libido dall’oggetto amato e perduto per sempre. Klein rivede in seguito questa posizioni. A me pare che l’identificazione alla persona morta riguardi solo una parte del Sé e di conseguenza alcune regioni degli oggetti intrapsichici. Non si tratta quindi di un lavoro di distacco di tutto il Sé dall’oggetto perduto, ma di una parte.

L’identificazione a mio padre riguardava in specie la parte infantile bambina che cercava nel padre una protezione e realizzava attraverso questa identificazione l’Ideale dell’Io infantile. Ad esempio, nei ricordi mi appare mio padre che mi protegge, che mi aspetta, che mi cura: il padre che mi mette una mano sulla spalla, proteggendo dal freddo. Questa parte infantile io l’ho sentita morire con mio padre, andare via sul treno – bara del sogno, come Stefano andava via con la mamma e la sorella (mia suocera e Rosalinda).

Il lavoro del lutto consiste dunque nel distacco da questa parte che deve re-interiorizzare l’oggetto perduto, ma non può farlo da sola, perché da sola, in quanto parte infantile, è debolissima.

Chi aiuta l’integrazione dell’Io, che cosa permette l’integrazione dell’Io, il quale deve lasciare seppellire col padre la bambina morta con lui? La parte “più adulta”, quella che serba gratitudine e trae conforto dal ricordo di quanto ha ricevuto. Avviene come una lotta tra una parte dell’Io, quella che vuole vivere e non è infantile, e quella che non potendo vivere senza il padre, perché da esso solo traeva la vita e la creatività, vuole morire per non sentire la perdita.

La lotta tra istinto di vita e istinto di morte è il contrasto tra parti dell’Io, per una delle quali la persona morta sopravvive solo nel ricordo, quindi si nutre della morte, della catatonia in assenza della sua unica fonte di vita, mentre per l’altra (o le altre) vale invece il principio della re-interiorizzazione dell’oggetto amato e perduto. Il narcisismo è una modalità con cui quest’ultima persegue la propria restaurazione, cercando di investire la libido in parti del sé non morte. Un amico della giovinezza, che nel periodo del lutto interviene a far rinascere una serie di ricordi riguardanti quell’epoca, può costituire un nucleo di identificazione proiettiva, con cui l’Io riporta la libido sulle parti di sé non morte, negando le altre parti.

Varie sono le modalità con le quali le parti dell’Io eseguono il lavoro del lutto e effettuano diversi livelli di interiorizzazione:

a) il narcisismo
b) il pensiero attraverso il ricordo.

a e b si avvalgono reciprocamente di:

c) l’identificazione proiettiva
d) la negazione e l’espulsione

L’introiezione autentica del padre può avvenire solo a spese della morte dell’Io infantile separato dal padre e tramite una ricreazione di una nuova unità, perché io e il padre viviamo uniti: io, per esempio, comprendo ora mio figlio con le stesse modalità di protezione e controllo con cui mio padre comprendeva me. Ma la Dina bambina piccola deve essere morta perché tutto ciò possa effettuarsi: ella non c’è più, ora e mai più rivivrà.


Note

(1) Scrive Vallino: “Avevo 11 anni e non è tanto il momento del distacco da mio padre che ricordo, ma come la casa divenne improvvisamente vuota. Mia madre coprì il letto matrimoniale con un lenzuolo bianco e andò a dormire in un’altra stanza. Da allora uscì poco di casa, lei che amava fare i bagni nella bellissima spiaggia del Poetto e andare a cavallo… rinunciò a tutto. Cambio umore e stile di vita” (da Diario 1974, Inedito).
“Mi risulta difficile ricordare come vedevo la Psicologia finito il Liceo. La mia vita infantile era stata segnata dalla assenza di mio padre e dalla difficoltà nuova per me di stare con mia madre nella sua famiglia, ove vivevano oltre ai nonni anche due zii, non sposati. Io amavo moltissimo mia nonna, ma vedevo perspicuamente questa famiglia allargata come portatrice di follia. Da bambina ero stata spaventata e avevo sin da allora progettato che da adulta avrei dovuto capire le radici e le matrici di questa follia. Il mio primo training psicologico lo vissi da bambina quando osservavo con timore le escandescenze di mio nonno e la violenza fraterna dei due miei zii. Mi chiedevo in che modo si potessero spiegare i loro litigi e le loro urla, quando, terrorizzata, mi nascondevo sotto il tavolo della sala da pranzo. Potrei dire che così iniziò il mio primo training psicoanalitico, quando pensavo che un giorno avrei capito… Ma non fui una wise baby poiché non facevo la bambina che curava i nonni o gli zii. Io, sanamente, non mi sottomettevo, non accondiscendevo, cercavo di evitare le loro interferenze in tutti i modi: sognavo di allontanarmi e andare a vivere in un’altra città (da “Autobiografia professionale”, 2005, Inedito).
“Ciò che ora mi sorprende dell’educazione ricevuta da mia nonna in particolare e anche da mia madre fu che rifiutavano che io le aiutassi nelle faccende domestiche, come chiedevo: diversamente da loro io avrei dovuto soltanto studiare e farmi una professione per non dover dedicare la vita al servizio della famiglia e del marito” (da Diario 1974, Inedito).

(2) Sull’elaborazione del lutto nel bambino si veda l’articolo Muore un genitore di un bambino: percorsi del lutto infantile (2003), oggi come Il lutto, Parte III Cap. 6 di Fare psicoanalisi con genitori e bambini. La Consultazione partecipata, Nuova edizione, Mimesis, Milano 2019, pp. 179-202.

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