Sulla persona e sulla speranza in psicoanalisi infantile

di Dina Vallino

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Tratto da:
Archivio Dina Vallino
2012

Pubblichiamo un breve ma denso scritto di Dina Vallino sul tema della Persona, che traccia un itinerario tra i significati giuridici, filosofici e psicoanalitici del termine.
Questi appunti, sottotitolati “Note per una riflessione etica intorno al lavoro con le famiglie nella Consultazione partecipata”, risalgono al 2012 e seguono al dialogo tenutosi con Piero Schlesinger nel 2010 al Centro Milanese di Psicoanalisi “Cesare Musatti” sull’unicità e irripetibilità della persona umana. Sono pagine che mettono bene in luce la concezione dell’Autrice sul compito della psicoanalisi – restituire ad ogni uomo il diritto di essere considerato una persona – sulla disposizione del lattante alla relazionalità – la sua ricerca attiva di una comunicazione corporea e affettiva con la madre – e sulla matrice fondamentale della Persona: l’affettività.
Viene stilizzato il pericolo implicito in quell’approccio sterile e meccanico che si sofferma solo sul sintomo del bambino e sulla riabilitazione delle funzioni “perdute”, finendo per comparare la sua persona a una “cosa”. Di contro, l’Autrice valorizza la dimensione della Speranza come attitudine a vedere in “quello che c’è, anche se molto povero e sgangherato”, un buon punto di partenza.
Sullo sfondo di queste considerazioni ritroviamo alcune tesi fondamentali del pensiero di Vallino, quali l’importanza della formazione del terapeuta con l’osservazione – che permette di stare davanti alla realtà, rimodulando le teorie di riferimento – il ruolo dei genitori nella Consultazione partecipata quali “migliori collaboratori”, l’importanza di saper giocare con il paziente il significato inconscio del sintomo.

Persona

Se in senso giuridico le definizioni di persona sono chiare (persona come soggetto responsabile delle azioni compiute e persona come soggetto titolare di diritti), in senso filosofico non ce n’è una definizione univoca né una convergenza di orientamenti.

Secondo alcune concezioni filosofiche classiche (es. J. Locke) si intende per persona un’identità pensante, dotata di coscienza, di capacità di riflessione, orientamento nel tempo e nello spazio, di mantenimento della continuità del sé, con capacità di linguaggio – inteso sia come comunicazione che fonte di pensiero, memoria – e con capacità di azione morale e di scelta autonoma. La persona coincide con l’uomo. In quanto persona, l’uomo è ente dotato di particolare valore perché capace di razionalità e moralità, degno quindi di assoluto rispetto (cfr. l’imperativo categorico di Kant: “Agisci in modo da trattare l’umanità in te e negli altri sempre come fine e mai come mezzo”). 

A partire da queste concezioni ‘classiche’, nel dibattito bioetico odierno si aprono molte questioni e interrogativi, tra cui: può l’essere umano non essere (o non essere più, o non essere ancora) persona? Può lo status di persona accompagna sempre l’essere umano, qualunque siano le condizioni in cui si trova?

In particolare, assistiamo alla polarizzazione di due posizioni etiche profondamente divergenti, che conducono a scelte di comportamento differenti:

1. Uomo e persona coincidono totalmente sia dal punto di vista ontologico che funzionale e temporale: l’uomo e solo l’uomo, in tutte le fasi della sua esistenza, ha diritto allo status e al rispetto di persona; 

2. Uomo e persona non coincidono né ontologicamente, né funzionalmente, né temporalmente: lo status di persona può essere negato all’uomo in alcuni stadi e stati della sua esistenza (es. nella vita prenatale, negli stati vegetativi, nelle condizioni di perdita dell’autocoscienza) e  i valori e diritti di persona sono estesi anche ad altri esseri viventi (es. diritti di tutela estesi agli animali).

La posizione (1) è caratteristica dell’Etica cristiana, e ha conseguenze concrete specifiche (es. no all’aborto, no all’eutanasia, ecc). La posizione (2) è propria di alcuni filosofi morali di matrice laica che ritengono si possa considerare persona esclusivamente l’agente morale, cioè l’uomo razionale, autonomo, capace di contrattualità. Questa posizione privilegia il principio di autonomia su tutti gli altri principi della bioetica: ha la concreta conseguenza di considerare leciti l’aborto e tutte le decisioni sul fine vita – dal suicidio assistito all’eutanasia, considerando la vita un bene disponibile – ma anche quello di limitarsi ad estendere, con un atto di beneficienza, le tutele ai soggetti deboli come bambini, vecchi, disabili – non considerati portatori di diritti forti.

Tra queste due posizioni piuttosto radicali e profondamente divergenti esiste tuttavia una vastissima gamma di posizioni intermedie, funzionali a scelte etiche di comportamento. Si rende necessario, pertanto, uscire dalle rigidità concettuali – alcuni filosofi pensano sia addirittura necessario abbandonare il concetto stesso di persona – per operare, nella pratica, delle scelte di comportamento non solo ideologiche, ma in base al bilanciamento di valori e diritti alla luce dei principi fondamentali della bioetica: autonomia, beneficialità e giustizia1.

La psicoanalisi, per come la concepisco, intende salvaguardare l’integrità della persona del bambino come soggetto bisognoso di amore e capace di desiderio. Siamo tutti convinti, credo, che la personalità di ognuno di noi risente fortemente dell’esperienza avuta con l’ambiente in senso lato (genitori, fratelli e sorelle, nonni, zii, insegnanti; tempo di pace o tempo di guerra, ecc.). Tuttavia dobbiamo ammettere che, mentre in giurisprudenza o in sociologia è stato dato un particolare rilievo alla categoria di persona, da parte della nostra umanistica psicoanalisi c’è davvero poco intorno alla considerazione del bambino come persona in tutta la sua complessità – c’è davvero un forte ritardo ideologico.

Dal mio vertice di osservazione, in quanto psicoanalista, mi sembra fondamentale restituire ad ogni uomo il diritto di essere considerato una persona. Ciò significa per me apprezzarne la reciprocità nella mia relazione anche professionale e obbligarmi a rispettarne l’alterità, il suo codice etico e di comportamento. In altre parole, significa che di fronte al paziente mi pongo nella condizione di valutarne la sua “trascendenza” rispetto a me, il suo non essere un oggetto regolabile dalla mia volontà, ma un soggetto a pieno titolo, che resta sempre in parte fuori dai miei confini di conoscenza.

Se poi porto il discorso, come ho iniziato da diversi anni, sul tema “persona” riferibile al bambino piccolo, sono portata a constatare la disposizione del lattante alla relazionalità. Questo avviene con evidenza sin dalla nascita, dato che il neonato non può sopravvivere da solo, ma anche perché il suo non è solo un cieco bisogno di una madre, ma è anche la ricerca attiva di una comunicazione che, prima di essere di natura linguistica, è dialogica in senso corporeo e affettivo.

Dovendo ammettere che il tema della persona è ritornato al centro della cultura mondiale attraverso il tema dei diritti umani, della bioetica e del rispetto della dignità della persona, è possibile oggi articolare un “principio Persona” (Ricoeur) che riguardi la dignità di tutti come esseri umani? 

Pur essendo tutti concordi – l’Infant observation dagli anni ’60 e l’Infant Research dagli anni ’70 – sulla disposizione alla relazionalità di ciascun lattante, tuttavia siamo rimasti indietro nella teoria e nella pratica clinica nel considerare che l’aspetto affettivo è la matrice della persona. Abbiamo trascurato il desiderio d’ amore del bambino e il suo bisogno di essere esistente per i suoi adulti. Etimologicamente, “per-sona” significa “ciò che risuona dietro la maschera”: è chiaro che in ogni soggetto risuona la sua inalienabile sete di riconoscimento e di relazione. 

Si tratta di una premessa valida persino per i bambini più gravemente compromessi (casi di paralisi cerebrali infantili, malattie rare, epilessie resistenti ai farmaci, gravi sindromi down, etc.). Un bambino è irreverentemente trattato come una “cosa” quando si pretende da lui – sia durante le acquisizioni diagnostiche che durante la riabilitazione – di fargli sviluppare “la funzione perduta”, senza chiedersi innanzitutto come stia lui dentro quel corpo. Intendo dire che la richiesta che egli apprenda certe prassi motorie o riabilitative, al solo scopo di far funzionare le sue reti neuronali e quindi le sue capacità cognitive, lo può affondare nel silenzio, nell’ipotonia, nel pianto esasperato o addirittura nella psicosi. Abbiamo visto molti bambini disabili o con un grave ritardo che – teniamolo presente – non hanno a disposizione un linguaggio per trasgredire la volontà dell’adulto, pertanto la loro ribellione o il loro evitamento, di solito, accentuano la gravità dei sintomi. Questo bambino-tipo, così mal-trattato, mi fa pensare che sta soffrendo se la considerazione della sua persona è pressoché nulla. Tra gli operatori, pochi ne sono consapevoli.

Ma vediamo la stessa situazione da un rovesciamento di prospettiva. Se chiediamo a un bambino con PCI (Paralisi cerebrale) prestazioni per migliorare la sua funzionalità motoria e prassica, scopriamo che è necessario appellarsi a ciò che egli può sentire, giocare o domandare, magari solo con uno sguardo o con un richiamo. Accendere anche nel grave disabile la voglia di giocare, la voglia di fare il birichino, vuol dire rivolgersi al suo Io. Questa decisione ci pone di fronte a una serie di cambiamenti imprevedibili. Anche i segni del disagio del bambino possono essere letti come elementi mentali minimi, segnali della Persona. Uno sguardo, un tic, un gesto, un chiudersi in se stesso, un piegarsi ipotonico su di sé – possono tutti intendersi come espressione dell’Io del bambino. Il problema è di noi adulti che dobbiamo imparare come si articola il pensiero nelle sue forme non-linguistiche

Nella riabilitazione con bambini con gravi patologie rare – quando la percezione somato-psichica, il sé corporeo, è alterato – ci si deve chiedere: un bambino “diversamente abile” come gioca? Come favorire l’emergere del gioco narrativo partendo dalle limitazioni percettivo-cognitivo-motorie? Come fare emergere la Persona del bambino affinché egli senta di poter essere agente e protagonista, e senta di poter comunicare intenzioni, desideri, emozioni che vengono condivise dai suoi adulti? Se il ritardo nel considerare il bambino come persona può essere colmato, lo dobbiamo al fatto di sostenere i genitori, aiutarli a vedere il bambino, oltre e nonostante la patologia, oltre il suo deficit. Ogni incontro insieme ai genitori richiede che da parte nostra si cerchi di stabilire col bambino una relazione significativa che gli permetta di sentirsi visto, considerato e amato per quello che è.

Speranza

Nel corso dell’attività analitica con adulti, bambini e adolescenti, mi è apparso con evidenza che ogni persona e ogni relazione si presenta come unica, mentre eccezionale e imprevedibile è la sua evoluzione, quando l’analisi ottiene dei risultati benefici per la vita del paziente.

L’efficacia dell’analisi continua ad essere per me l’aspetto più intrigante che mi rende congeniale non solo l’attività in studio con i pazienti, ma anche il trasmettere a colleghi e a collaboratori l’esperienza clinica assimilata, per presentare e discutere con altri quanto sono arrivata a capire sino a quel momento. Il punto in cui arriva la mia comprensione si sposta, nei periodi più fortunati, sempre un po’ più in là. Questo mi permette – credo – di non aggrapparmi alle teorie preferite come a dei “relitti” con cui navigare a vista, ma piuttosto a scoprire come si modifica nel tempo, dopo la prova con l’esperienza clinica e osservativa, lo strumentario di cui dispongo, ossia la mia teoria della clinica, a cui non è estranea la formazione con l’osservazione. La formazione con l’osservazione educa pazientemente a stare davanti alla realtà a mani nude, accettando il rischio di vedere quello che non prevedi.

Il punto centrale, per me, è quell’intuizione che valorizza come punto di partenza “quello che c’è”, anche se molto povero e “sgangherato”. È quella voce interiore che dice: “C’è sempre qualcosa da fare!”. La dimensione della “speranza” è molto presente nel mio lavoro perché anima il pensiero che, in qualsiasi condizione ci si trovi, qualcosa si può sempre fare.

Per poter collaborare con i genitori occorre avere simpatia per le loro difficoltà e i loro errori, che sono anche i nostri. Bisogna avere nella mente che nei genitori bisogna cercare quella flessibilità che permette loro di cambiare ed accogliere la comunicazione del bambino. Ho cercato di illuminare “dall’interno” come la funzione dei genitori si esprima soprattutto nella loro flessibilità, che li mette in grado di “aggiustare continuamente il tiro”, rispondendo alla variabilità, imprevedibilità e complessità dei comportamenti del proprio figlio.

Il mutamento che ho proposto con la Consultazione partecipata implica questioni di metodo e di “cuore” che mi hanno richiesto molti anni per poter essere precisate. L’emotività prorompente di madre e padre che mi chiedono consigli è stata talvolta imbarazzante: i toni di voce troppo alti o sommessi, le lacrime a fior di pelle, l’idea di aver commesso colpe irreparabili, la rigidità e il super-controllo per timore di essere giudicati, il trovarsi improvvisamente di fronte al proprio bambino in sofferenza. Queste ed altre manifestazioni di emozioni “non contenute” mi hanno portato a considerare che, essendo da loro ritenuta esperta sui loro figli, dovessi innanzitutto entrare più in confidenza con i loro sentimenti sia di gioia che di insicurezza. E che, al fine di alleviare la loro angustia per un disagio del figlio o il proprio senso di colpa, quegli stati emotivi – che chiamo “questioni di cuore” – dovevano essere messi al centro dei problemi educativi che come genitori ritenevano di non saper risolvere.

Il problema è che, da psicoanalista, si inizia col metodo, il più corretto possibile, ma la speranza non la puoi porre nel metodo, ma solo nella realtà che hai davanti.

Betty Joseph ha sostenuto l’idea di un transfert totale: tutto nella situazione analitica, per il solo fatto di accadere lì, è potenzialmente portatore di un significato inconscio. Infatti durante la Consultazione con genitori e bambini presenti nella stanza si presenteranno i motivi inconsci del loro non capirsi. Interessarsi al transfert totale significa interessarsi, da parte dell’analista, alle identificazioni patologiche e normali, interessarsi al fraintendimento tra genitori e figli, distinguerlo dal trauma.

Il problema centrale del terapeuta è offrire al paziente bambino strumenti per comunicare le sue rappresentazioni. La sua “povertà” di bambino può essere quella di non avere mezzi adeguati e sufficienti per una comunicazione verbale con i genitori. L’analista cercherà allora di giocare col paziente il significato inconscio del sintomo, per permettergli di accedere al suo Luogo immaginario. 

“Quello che c’è” a volte non riesci a vederlo subito, e allora devi umilmente accedervi attraverso un lungo lavoro colmo di speranza.

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La “leggibilità” dell’Immaginario e il ruolo dell’analista