Significato e uso della teoria in psicoanalisi

di Dina Vallino

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Pubblichiamo alcune riflessioni di Dina Vallino sul tema della teoria in psicoanalisi, risalenti al 2002 e al 2007. Si tratta di appunti inediti pensati per l’attività di training svolto presso il Centro Milanese di Psicoanalisi “Cesare Musatti” di Milano. Le pagine che seguono offrono un’interessante trattazione del delicato rapporto tra teoria e sua storia in psicoanalisi; si soffermano sul concetto di modello teorico, sulle sue origini e sulla sua valenza clinica, avanzando una riflessione sulla Consultazione partecipata; sottolineano la centralità dell’osservazione e dell’esperienza per l’evoluzione dei modelli, portando un esempio tratto dall’Infant observation; argomentano a favore di un eclettismo teorico volto a valorizzare la coralità della storia della psicoanalisi, come luogo cui attingere “sempre di nuovo” per ritrovare e rielaborare concetti all’altezza della complessità del paziente.

Tratto da:
Archivio Dina Vallino III.1.1 fasc.19

La ricerca di un modello trasversale

2007

Sulla teoria psicoanalitica

La teoria psicoanalitica non è un’entità omogenea, né un corpo di dogmi immutabili, ma essendosi strutturata gradualmente è costituita da un certo numero di idee mutevoli e diverse sulla natura umana e sullo sviluppo della personalità, linee di pensiero generate principalmente in risposta alle esigenze del lavoro clinico. Che lo si voglia o no questo comporta diversi problemi nella trasmissione dell’insegnamento: come si deve parlare di una psicoanalisi che contiene modelli molto complessi, riconducibili a personalità di psicoanalisti che hanno avuto esperienze diverse, in paesi diversi, con culture e pazienti diversi? Ogni teoria psicoanalitica che si riferisce all’evoluzione, alle funzioni, alla patologia della mente umana, è stata costruita in un contesto storico, culturale, sociale da parte di persone totalmente immerse in questo contesto, che li ha condotti a interpretare la realtà a partire da determinati presupposti e da altre interpretazioni precedenti.

Non possiamo dire che una teoria psicoanalitica sia vera ed altre false e non abbiamo ragioni per accreditare che una di queste sia maggiormente sicura della verità delle teorie rivali; tuttavia, possiamo dire che concetti teorici diversi hanno acquisito e perduto importanza non a causa di conferme o confutazioni, ma come fatti scelti che hanno dominato il dibattito scientifico per un certo periodo. Quello che può succedere è che un modello copre il campo delle inferenze possibili (come accadde per il modello kleiniano) e altre linee di pensiero “restano a lungo marginalizzate” e quindi restano occultati i fatti scelti operanti in altri contesti teorici. Accadde questo con la linea di pensiero che fa capo a Ferenczi attraverso Balint e la sua influenza su Bick.

Guardando la storia della nostra disciplina, dalla prospettiva di evidenziare di volta in volta i legami occultati, si riesce a cogliere che elementi del discorso, che dapprima ci erano parsi essenziali, si rivelino secondari, e viceversa, dati che trascuravamo diventano la chiave per interpretare tutto il resto.

La teoria tra immaginazione ed osservazione

Dopo cent’anni di psicoanalisi mi pare si sia rinunciato ad un atteggiamento monologico che assolutizzava un modello visto come ‘regale’ nei confronti di altri. Oggi non siamo più disposti a pensare di rinunciare al confronto tra i nostri modelli e tendiamo a lasciarci “contaminare” dal punto di vista di altri. Non ritengo che giovi un sincretismo senza differenziazioni, ma piuttosto l’uso di concetti che sorgono da aree osservative contigue tutte rivolte a cercare di afferrare un punto originario.

Quasi tutti i modelli psicoanalitici, ad esempio, entrano in merito ad ipotesi sulla storia iniziale dell’adulto, facendo spesso riferimento a congetture immaginative intorno al neonato. L’Infant observation ha affiancato a queste l’osservazione, sottolineando come la specificità della mente neonatale non si lasci definire senza considerare in via osservativa la relazione con la madre.

Nell’Infant observation non ci si ferma alla sola immaginazione (come empatia, identificazione, ecc.); l’immaginazione conta per il 50%, per così dire, mentre il restante è costituito dall’osservazione del comportamento del bambino. Questo naturalmente è mal detto. In effetti, si tratta di un complicato dialogo tra osservazione che si chiarisce con l’immaginazione e di immaginazione che si nutre di osservazioni dirette. Tutto ciò all’interno di un’apertura alla conoscenza fondata sulla convinzione che la realtà stia comunque al di là di tutte le parole, anche se lo sforzo sia quello di trovare via via nel tempo le parole migliori.

Un modello teorico alla prova dell’osservazione

Se prendiamo in considerazione il modello dell’aggressività primaria del neonato, di matrice kleiniana, vediamo come questo ha dominato per diversi anni; tuttavia, dopo che le ricerche osservative e di psicologia dello sviluppo hanno approfondito la conoscenza delle potenzialità innate dei neonati e la loro capacità di integrazione percettiva trasmodale, si è reso necessario usare quel modello psicoanalitico che sottolinea come fatto scelto l’azione esercitata dall’identificazione proiettiva della madre e il modo in cui ella può divenire intrusiva. Nell’esempio seguente una bambina di 22 giorni si trova con una madre in difficoltà. La mamma accende la radio e non si rende conto che Anna di 22 giorni potrebbe essere disturbata da rumori troppo forti.

Anna (22 giorni)

Quando entro – scrive l’Osservatore – vedo la mamma che sta nutrendo Anna con un biberon di camomilla; sembra si sia alla fine del pasto, poiché Anna succhia brevemente, con pause, poi chiude gli occhi e non risponde alla mamma che la chiama “Trottolina”, fa commenti sul suo sonno e sui suoi sogni, ma con voce fredda e poi le piazza un succhiotto in bocca, che la bambina respinge girando in fuori la lingua. La mamma accende la radio e comincia a stirare. La bambina diventa inquieta: ha un sussulto, tira fuori la lingua, si tira i capelli, più volte, come volesse allontanare il rumore dalla testa. La mamma le rimette il ciuccio che Anna ancora respinge; si tira i capelli, poi si dimena nella culla, infine piange a dirotto. La mamma le massaggia la pancia e le parla dolcemente; Anna si calma. La mamma torna a far rumore, questa volta con le stoviglie e di nuovo la neonata si agita, si raggrinza, storce la bocca, rotea la lingua, fa versetti, si lamenta come piangesse e si tira i capelli. La mamma le dà il biberon: ma Anna succhia poco e ritrae la testa. La mamma decide di cambiarla, ma la bambina è solo bagnata. Anna agita gambe e braccia e tiene lo sguardo fisso verso l’alto.

Inizialmente la madre funziona per identificazione proiettiva assai intrusiva del tipo: “A me piace ascoltare la radio, allora piace anche a te”. La neonata, che potrebbe anche essere in preda di dolori di pancia o quant’altro, proiettando con la sua disperazione tutto il suo disagio, di fatto lo trasmette alla madre, che riesce a calmarla, quando le parla e la accarezza.

Ma successivamente possiamo osservare che la sofferenza della neonata non costituisce un mistero per questa madre, che già sa, ha solo certezze: se piange, allora ha fame; se no, si è sporcata e occorre cambiarla. Applica ricette, non sa aspettare e pensare in proprio. Vediamo qui che l’identificazione proiettiva della madre (che è inconscia) sostituisce l’empatia, cioè il pensiero che comprende i vissuti altrui. L’empatia ammette la diversità: in questa situazione io mi trovo bene, ma lei si troverà bene? L’empatia implica immaginazione: come potrà sentirsi nel nuovo ambiente un neonato, essere così diverso da me?

Colpisce la difficile vita iniziale di questa neonata: se la madre non comprende la sua bambina possiamo osservare come una neonata possa inibirsi, assoggettata da un’identificazione patologica intrusiva, che le toglie il desiderio di esprimersi – vediamo Anna che si agita e non guarda più verso la madre, sembra cerchi di contenersi da sola.

La psicoanalisi come insieme di modelli eterogenei

Nel frammento osservativo appena visto noi finiamo per rimettere in luce una linea di pensiero a lungo marginalizzata, che fa capo a Ferenczi attraverso Balint e la sua influenza su Bick. Questo modello della mente postula che tutte le esperienze (infantili, adolescenziali e adulte) vengano interiorizzate in un range che va dal normale al patologico, nel senso che le esperienze si accumulano e si sviluppano all’interno del soggetto, influenzando la sua vita mentale e affettiva in modi complessi e indiretti.

Quando si iniziano ad ammettere legami e affinità tra Bick, Ferenczi, Balint, Winnicott e Bion ci si accorge che la psicoanalisi è un insieme di modelli eterogenei, della cui coerenza e compatibilità devo interessarmi, perché la questione relativa alla presunta incompatibilità dei modelli è il solo problema che permette di seguire un percorso consapevole, rendendo un servizio alla complessità del paziente.

So che l’utilizzare concetti di diversi psicoanalisti, oppure uno stesso concetto che assume accezioni diverse a seconda del contesto clinico in cui viene inserito, può essere criticato come una sorta di eclettismo. Volendone approfondire la valenza epistemologica, in filosofia con ‘eclettismo’ si può indicare un metodo che unisce tesi conciliabili oppure elementi e sistemi di idee che possono venire a unirsi grazie a un concetto che li mette in armonia tra loro (A. Lalande, Dizionario critico di Filosofia, 1971 ISEDI).

È questa ricerca eclettica che fa della psicoanalisi una miniera: non solo di idee che riguardano il passato, ma di anticipazioni, ossia di concetti utili per il rinnovamento. Per rinnovamento intendo una sorta di aggiornamento personale che ‘precipita’ nel lavoro analitico e fa sì che l’essere psicoanalisti – che lo vogliamo o no – ci accomuna in una sorta di destino: ci siamo piegati a riflettere sulla nostra anima con qualcuno accanto, e ognuno di noi si riconosce nell’altro per questa comune ricerca di se stesso.

La teoria in stanza d’analisi

2002

Come nascono i modelli?

Quando parliamo di modelli in psicoanalisi dobbiamo approfondire la loro specificità. Dobbiamo per esempio chiederci: quali i riferimenti teorici, quali le aree che attirano l’attenzione dell’analista, quale modello del transfert e del contro-transfert, dell’identificazione proiettiva, della coazione a ripetere, ecc. ?

Nel piccolo gruppo possiamo riflettere separatamente sul materiale clinico e poi intorno alle nostre osservazioni. L’interesse di questo metodo è che non si lavora sul materiale clinico in termini di supervisione, ma con l’obiettivo di cogliere dal materiale stesso i nostri assunti teorici, i nostri modi di lavorare, le idee che ci guidano e la stratificazione di idee vecchie che non siamo consapevoli di utilizzare, come anche di idee nuove, di idee nascenti, cui ancora non abbiamo dato un nome.

Mi sono chiesta come nascano i modelli. Penso che i modelli nascano dall’esperienza che non si riesce a comprendere: sono ipotesi, griglie entro le quali si tenta di dare un nome all’esperienza ignota. Ci sono modelli di interpretazione perché non si riesce ad arrivare alla cosa in sé (intesa con Kant e Bion). Non si può rischiare di considerare i modelli come cose in sé che sussistono al di là dei problemi che si presentano.

L’innamoramento per i modelli teorici, per converso, rischia di far perdere di vista le radici da cui hanno origine: da un’esperienza incompleta. Quindi l’eclettismo dei modelli riguarda la libertà mentale di avvalersi di modi diversi di catturare l’esperienza.

Quale modello per il primo incontro di consultazione?

Come noto, ci sono diversi modi di condurre una consultazione. Vi è chi, ad esempio, occupandosi di bambini piccoli o disabili, lavora con operatori riabilitatori sulla sensorialità del bambino. Altri invece danno forte predominanza al punto di vista del mondo interno del bambino.

Se penso al primo incontro di consultazione con genitore e bambino, mi chiedo: il bambino può differenziare un agente interno da uno esterno, ossia una madre interna che non procede come la madre di fuori? Se così fosse, dove può mettere una madre rabbiosa, ansiosa, ‘strega’, disperata, esasperante o amorosa con cui ha a che fare?

Un bambino è un bambino. Sto dicendo qualcosa che sta tra la banalità più totale e la vuota tautologia? Che non ci porta da nessuna parte? Ma io non voglio andare da un’altra parte con i miei modelli teorici. Io voglio stare dove già sono col bambino. Uno dei conflitti più caratteristici che porta il bambino alla disperazione è la sensazione di tradire la madre, di non esserle fedele e dunque di poterne essere abbandonato. Anche in questo caso si può parlare di senso di colpa inconscio che porta il bambino a manifestazioni sempre più clamorose di rifiuto e di inibizione a un rapporto nuovo.

Infatti cosa si deve pensare intorno a un bambino che viene portato in studio dai suoi genitori per problemi di vario tipo, che impediscono loro di svolgere il loro lavoro di educatori? Egli ha subito un arresto nella sua storia. Per tanti motivi il suo progetto di vita è segnato da inibizioni: se è piccolino può manifestare paura a camminare oppure non riuscire ad evacuare, oppure vomitare. Ed ecco il significato della mia tautologia precedente: un bambino è un bambino. Significa che molto dipende anche dall’età. In che modo parla se parla? In che modo comunica con me questo bambino? Col gesto, con gli occhi, col movimento? La prima domanda di orientamento – in che modo è – ci seguirà per tutta la consultazione. Questo bambino, per noi designato come futuro paziente, sente di esistere? Sente di essere qualcuno? Lo vediamo da come si comporta?

Il modello di campo nella Consultazione partecipata

In analisi infantile i genitori, che si impegnano nell’affidarmi il loro figlio o figlia, costituiscono a mio parere una variabile della relazione analitica. Ciò implica l’inserimento della relazione analitica in un modello di campo:

Bion ha definito il concetto di campo emotivo in rapporto a fenomeni di gruppo, come una situazione nella quale “i singoli sembrano aver perso i propri confini di individui, mentre si vengono a conformare delle aree dentro le quali le emozioni scorrono a loro piacimento: analista e paziente non vi possono sfuggire [...] Io rappresento dunque il sistema protomentale come quella condizione immediata in cui il fisico e lo psichico, il conscio e l’inconscio, il self e il not-self, si trovano in uno stato indifferenziato”.

Nel modello di campo Ferro ci dice quanto sia importante riconoscere sia le aree di resistenza della coppia, i “bastioni”, ma anche i movimenti di allontanamento e avvicinamento che permettono all’analista di essere dal paziente informato su quanto sta avvenendo nel campo. Il concetto di “bastioni” è stato introdotto da M. e W. Baranger per individuare quelle aree della situazione analitica in cui le identificazioni proiettive del paziente si scontrano o si incontrano con le identificazioni proiettive dell’analista, creando fenomeni di collusione inconscia che paralizzano la comprensione di entrambi.

I tre “bastioni” da abbattere nella mia esperienza di consultazione, elaborandoli mentalmente, mi sembrano:

a. Il senso di colpa dei genitori da affrontare con l’osservazione. Attraverso le prime interviste alle madri ho notato che il senso di inutilità del loro operato e la disperazione impedisce loro di riconoscere le proprie competenze materne. Disperazione, chiusura e impotenza caratterizzano il senso di colpa inconscio dell’adulto.

b. L’identificazione dei bambini ai genitori da affrontare con l’immaginario. La letteratura infantile è ricca di esempi a questo riguardo.

c. Il senso di colpa inconscio dell’analista dovuto a insufficiente valutazione delle proprie possibilità. Data la forza dell’identificazione proiettiva di cui è fatto oggetto il terapeuta, può facilmente accadere che egli ritenga di avere più potere nella risoluzione di un problema di quanto non sia realistico supporre.

Letture

Per l’analisi di un modello trasversale nella storia della psicoanalisi:

Vallino D. e Macciò M., Psicoanalisi tra teoria dell’attaccamento, Infant Research, Infant Observation: spunti di riflessione, Rivista di psicoanalisi LIV, n. 2 (2008): 515-523.

Sull’irruzione dell’osservazione per la conoscenza della mente neonatale:

Vallino D., Per non cadere nel vuoto. Riscoprire il neonato con Esther Bick, a cura di L. Rocca, Mimesis, Milano 2019.

Sui modelli teorici ricompresi alla luce della consultazione partecipata:

Vallino D., La consultazione partecipata: in che modo il lavoro congiunto con i genitori e i figli illumina fraintendimenti famigliari e identificazioni patologiche, ciclo seminariale 2010/2011 Centro Studi Martha Harris: “Relazioni difficili: come guardare all’intreccio emotivo tra genitori e figli nella consultazione, nella educazione e nella terapia”, atti dei seminari pp. 3-15.

Sulla nozione di campo::

Vallino D., Il campo psicoanalitico e il giardino segreto: una mefatora per lo sviluppo del pensiero vivente. In Emozione e interpretazione: Psicoanalisi del campo emotivo, a cura di Eugenio Gaburri, 176-188. Torino: Bollati Boringhieri 1997.

Vallino D., Campo emotivo e multidimensionalità nell’Infant Observation. Interazioni 11, n. 1 (1998): 27-33.

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