Recensione dell'ultimo libro di Maria Teresa Algini

Mariagrazia Pirotta e Gianangelo Palo: Recensione del libro di Maria Luisa Algini “Le ferite invisibili. Sui bambini e la morte dei genitori”, Robin Edizioni, Torino 2016.

 

Non è stato facile scrivere a quattro mani….   Le mie emozione di “donna” amica, collega, ”allieva” di Maria Luisa Algini prendevano un posto forte ed ingombrante sui miei pensieri. Pensare con Gianangelo come impostare il lavoro di recensione ci ha, anche questa volta, fatto sentire la grande differenza fra il suo “pensare maschile”: sintetico, essenziale e il mio “pensare femminile”: analitico e dettagliato.

Il tema del libro: la morte e il lutto vissuto dal bambino e dai genitori (il genitore vivo e il genitore che muore) hanno aumentato il carico emotivo. Accompagnare un bimbo e la sua mamma o il suo babbo a toccare ferite invisibili, porta l’autrice a rivisitare le sue ferite di un passato non lontano descritte nel suo libro “Il tempo dell’orizzonte corto (Sull’amore e il lutto)”.  Leggendo questo testo, ricco di spunti creativi, ci soffermiamo su alcuni elementi che ci sembrano significativi.

Maria Luisa Algini, già nota al pubblico  per le sue numerose pubblicazioni apparse in vari contesti, soprattutto in “Quaderni di Psicoterapia Infantile”(ed. Borla), ci conduce lungo un cammino che evidenzia una competenza rigorosa, anche teorica, nel mentre  una dimensione quasi poetica  avvolge tutto lo scritto. Direi che quello che emerge maggiormente è la capacità narrativa, che diventa lirica e prende il lettore e lo avvolge in questa dimensione. L’immagine di copertina si presta a ulteriormente evidenziare questo aspetto. La Ferita del grande albero si affianca al buco enorme che l’accompagna. In questa immagine c’è tutto quello che abbiamo espresso prima.

Ferita, richiama la ferita narcisistica e quanto il termine può evocare. Ma ferita si coniuga anche con il “buco”, il vuoto che l’affianca. Il vuoto che può essere riempito e trasformato in un nido, il nido del rapporto terapeutico che Algini sa costruire e descrivere in modo eccellente e, a volte, struggente. Un nido che non è sempre ovattato, che fa emergere le sue spine, un nido che richiama la cicatrice. Cicatrice che è possibile curare se si uniscono le parti lacerate, se il vuoto viene riempito da una operazione di cucitura, di legame in cui i fili vengono sapientemente tirati. Ecco allora l’importante discorso del Transfert nei suoi complessi elementi teorici che vengono ben evidenziati.

A un certo punto compare una figura significativa: Dina Vallino che noi sentiamo un po’ come Virgilio nel viaggio dantesco. Dina non è una spalla a cui appoggiarsi passivamente, ma una spalla che sprigiona energie interpretative e calore necessario per affrontare situazioni non facili. Diventa un aiuto nella costruzione del nido che fa entrare in gioco varie figure: il bambino, la terapeuta, i genitori… come un grande concerto in cui tutti giocano la loro parte. Questa immagine del concerto mi sembra ricca di spunti e generatrice di pensieri ed emozioni che più analiticamente andremo a evidenziare.

Il cuore del libro, ci dice Algini, è costituito da quattro storie cliniche narrate attraverso una “finzione descrittiva”. L’autrice cerca di immaginare come i bambini potrebbero raccontare la propria storia, così come è nata e si è sviluppata nell’hic et nunc della relazione analitica. Nel Viaggio incontriamo:

-    Kirikù: un bimbo piccolo di soli quattro anni, un bimbo “speciale”, che insegue “il segreto” delle sue origini con un intreccio di emozioni esplosive, turbolente e nello stesso tempo molto tenere. Le storie sono caotiche, ingarbugliate, ma Kikki (la sua terapeuta) le accoglie e piano piano il gomitolo spinoso si dipana. Kikki, con delicatezza e grande competenza terapeutica, aiuta Kirikù e la sua mamma a dare valore e parola ai ricordi e a raggiungere il doloroso “segreto”.

-    Joker: un bambino di nove anni a cui è morto il babbo il giorno di Natale quando aveva cinque anni. “Il mio problema sono le emozioni, vorrei essere senza emozioni, questa sarebbe la vera felicità. Maledetti sentimenti”. ”E’ morto mio padre e voglio morire anch’io”. Joker si interroga: “Perché papà è morto? Dove è ora? Dove vanno i morti? Cos’è un cimitero?” “Mamma non mi ha mai portato a vedere quella tomba”. Capita spesso che con un bimbo, a cui muore un genitore, si adotti la negazione, come se nulla fosse accaduto (questo a maggior ragione quando il bimbo è piccolo). Per la mamma di Joker la morte e il dolore per la morte vanno tenuti lontani, dimenticati, “il trauma della morte del marito cancellato, respinto fuori dalla memoria”. Per tutti, e ancora di più per un bambino, è importante avere un luogo, uno spazio nella mente dove collocare la persona amata che lo ha lasciato per sempre. La tomba assume il significato di “uno scoglio su cui l’onda di dolore può frangersi in un va e vieni, che permette di girare intorno a quello che si sente”. Spesso si pensa che sia utile “non parlare” per “non far vedere” quanto si è sconvolti e provocare in questo modo ulteriore sofferenza. “ Eunidea che si regge sullillusione che, evitando le parole, i bambini possano non accorgersi di quanto sta male il genitore” scrive Maria Luisa Algini. Per la mamma di Joker è quasi impossibile “aprirsi alla parola” per condividere.

-    Zeta. È la storia più drammatica, “al limite della pensabilità”. Significativa è la scelta del nome dato alla giovane paziente: Zeta, l’ultima lettera dell’alfabeto. La vita di questa ragazzina è rimasta appesa ad un filo, trascinata dal folle gesto della madre, che suicidandosi la porta con sé. Il corpo mutilato e la mente mutilata. L’angoscia di ricordare il trauma, anche se il moncone del braccio è lì sempre presente a testimoniare la Ferita e l’evento traumatico. Algini nel testo scrive: “Il non ricordare ci aiuta… Per ricordare cose dolorose occorre molto tempo, bisogna allontanarsi dai fatti, guardare lontano con calma insieme a qualcuno che ci aiuti a sentirci meno spaventati”. Zeta “doveva essere riconosciuta come bambina, sentire che esisteva un’analista che la guardava e con cui poteva ripristinare qualcosa della propria vita, anche l’importante funzione mentale, simbolica e dialogica”. Questo suggeriscono nel testo le parole di Dina Vallino. La psicoterapia per Zeta è la speranza di sentire le braccia forti della sua terapeuta che la sostengano.

-    Marta, la piccola paziente di Dina Vallino, che “faceva finta di niente”. “Si può evocare la morte della madre se la bambina fa finta di niente e parla d’altro?” si chiede Dina. “Capii che bisognava uscire dall’anestesia, perché il suo dolore non era ‘terminale’, ma espressione di vita mentale”. ”La vita è circolazione di affetti, anche di affetti dolorosi come la mancanza, la nostalgia, il rimpianto, la solitudine”.

-    Giovanni Segantini. In una lettera scrive al suo interlocutore: “Lei mi chiede come, nella vita quasi selvaggia in mezzo alla Natura, si sia venuto sviluppando in me il pensiero e il sentimento dell’Arte? non saprei…forse per spiegarlo bisognerebbe scendere fino alle radici: studiare, analizzare tutte le sensazioni dell’anima fino alle prime emozioni, anche le più lontane dell’infanzia”. L’evento cardine dell’infanzia di Segantini: la morte della madre quando non aveva ancora cinque anni. Scriverà dodici anni dopo la morte del pittore della natura il grande psicoanalista Karl Abraham: l’arte per Segantini è “il canale che permette rappresentazioni all’amore e al dolore”. 

Il libro di Maria Luisa Algini -come dicevamo all’inizio- ci sembra molto collegato alla dimensione artistica che sa trasfigurare la realtà non negandola ma rappresentandola nella sua complessità.

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Barbara Valli - Ricordo di Dina

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Giornata di Studi dedicata a Dina Vallino - Milano, FAES