Gli affetti in età evolutiva
di Dina Vallino
Presentazione
Lo scritto che segue è l’intervento tenuto da Dina Vallino alla “Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica dell’Infanzia, dell’Adolescenza e della Coppia” (SIPsIA) di Roma, il 9 Ottobre del 1998. A partire da un ricordo sentito del pensiero di Parthenope Bion Talamo, scomparsa tragicamente pochi mesi prima, Vallino illustra una vignetta clinica tratta da Raccontami una storia, uscito lo stesso anno, per presentare il suo modello di lavoro con la Storia e il genitore in seduta. Ne scaturì un vivace dibattito tra colleghi, di cui riportiamo la trascrizione, dove vengono toccati e approfonditi diversi temi tecnici: la difficoltà, e l’importanza, di lavorare con genitori patologici, la necessità per la psicoanalisi infantile di nuovi concetti e nuovi metodi, la centralità del controtransfert dell’analista, il concetto di Luogo Immaginario rispetto ad altre simili concezioni (rifugio, conchiglia, claustrum, luogo fantastico).
Archivio Dina Vallino: III.3.3, fasc. 4.6
La curiosità dell’analista
Riflettendo sul tema degli affetti in età evolutiva mi sono trovata nella difficoltà di definire un campo così vasto. Vago da un punto all’altro per capire come e da dove iniziare: dal leggere l’etimologia della parola “affetto”, all’introduzione di Hautmann al Convegno della Società Psicoanalitica Italiana del 1986, al tema delle passioni in Corrao. Mi ha soccorso una citazione di Parthenope Bion Talamo a proposito della curiosità. “Quello che conta è la possibilità dell’analista di tenere aperta la curiosità senza saltare a conclusioni precipitose, essendo così incoraggiato a continuare con le sue osservazioni” (P. Bion, Borgogno, Merciai, 1998).
Secondo Parthenope Bion questo corrisponde a una posizione dell’ultimo Bion, un anno prima della sua morte, posizione che egli aveva sviluppato con un atteggiamento che includeva la capacità di non saltare alle conclusioni, perché le stesse interpretazioni non erano che punti di passaggio sulla via per qualche altro posto e quindi, in un certo senso, sempre troppo in ritardo. “Quando l’analista raggiunge il punto di formulare un’interpretazione” – scrive Parthenope Bion – “indica non solo la conclusione di un processo di pensiero che si è sviluppato tra analista e analizzando, ma sta parlando di uno stato che è già passato; in quel momento la coppia analitica è già andata oltre” (P. Bion, Borgogno, Merciai, 1998).
Transfert per Wilfred Bion significa propriamente transeunte, punto di passaggio. Scrive Bion: “È un ’idea che [il paziente] ha ‘durante il cammino’: la trasferisce su di me come misura transitoria mentre si avvia a raggiungere quello che pensa o prova veramente” (W. Bion, 1985).
In riferimento al titolo di quest’oggi – “Gli affetti nell’età evolutiva” – non verrò a dirvi quali sono gli affetti dei bambini/e che conosco, non generalizzo la mia esperienza di diversi casi, né farò una sintesi rispetto alla bibliografia che conosciamo. Non intendo far questo, perché prendo la domanda rivoltami in senso proprio, ossia: come faccio io a capire gli affetti sconosciuti di quel determinato bambino che arriva nella mia stanza di consultazione?
Lavorando sulla relazione tra gli affetti del bambino e la curiosità dell’analista, voglio mostrarvi la modalità con cui mi trovo a gestire la mia curiosità riguardo alla comunicazione dei bambini. All’inizio di una consultazione o di una terapia, soprattutto nei primi incontri, mi interrogo e mi soffermo sul significato del comportamento del bambino/a, per come si presenta quando io non sono ancora in contatto con la sua esperienza, con quanto sta vivendo, ovvero quando ci manca ancora un linguaggio comune. In questi primi incontri è importante chiedersi: forse il suo vissuto è troppo tempestoso e pieno di paura perché possa comunicarmi qualcosa?
Per questa ragione, il primo contatto con il bambino/a passa attraverso la nostra disponibilità al contatto emotivo con lui/lei. Per me mettersi dal punto di vista del bambino significa cercare di riportare sempre di più nel transfert, nella relazione col paziente, il problema del significato, che va cercato insieme nella seduta.
Vorrei introdurvi ora al caso di Lisetta, una bambina di otto anni che è venuta da me per un’insonnia – non riusciva a stare nel suo letto e voleva andare sempre nel letto della mamma. Vi presenterò le due prime sedute, la difficoltà ma anche l’urgenza di entrare in contatto con la sua esperienza, travolta da un improvviso lutto famigliare.
Il primo incontro con Lisetta (8 anni)
Nel primo incontro Lisetta mi parla della sua insonnia secondo quanto ne dicono i genitori e non c’è modo di parlare d’altro. Lei vorrebbe sempre stare insieme alla mamma, ma se la mamma la sera deve uscire lei non riesce a dormire; vorrebbe andare nel lettone ma poi il papà si arrabbia, perché è lui che vuole dormire con la mamma. Da quando dorme con sua sorella riesce a dormire di più, perché sono vicine.
Esaurite le informazioni sui sintomi – in cui vedo che Lisetta è perfettamente identificata alla madre e al padre – le chiedo se ha brutti sogni: mi dice di no, però aggiunge che ha letto una storia. Io le chiedo di raccontarmi questa storia e la scrivo: “Il bambino vedeva un mostro, sua sorella gli diceva di spegnere la luce e di non avere paura, finché lui una volta ha spento la luce e non ha più visto il mostro”.
A questo punto si sviluppa un movimento molto interessante, perché io chiedo a Lisetta se vuole disegnare e dopo il disegno lei si fruga le tasche e tira fuori una serie di piccoli mostri di plastica e tre palline. Lei dice che i mostri li ha portati a scuola perché giocano con i suoi compagni ma non fanno lotte, ma solo esplorazioni intorno alla terra in cui tutti si uniscono.
Poi mi dice che lei ha un progetto per quando è grande: farà la fumettista o la veterinaria. Io parlo del curare gli animali e lei mi parla della sua cagnetta Lia, che è stata molto male ma che adesso è guarita.
A quel punto, dopo aver parlato della cagnetta, si ricorda di due sogni brutti, che io scrivo: uno di adesso, con il papà con gli occhi che roteano, e uno di quando era piccola e andava all’asilo, dove cadeva nella neve.
Nei giorni seguenti mi ritrovo a dover affrontare una sorta di “pronto soccorso”. Tra il primo e il secondo incontro avviene un improvviso lutto in famiglia: il suicidio della sorella della madre.
La madre mi telefona di sabato in lacrime per dirmi che sua sorella Alessia è morta. Come farà a dirlo alle bambine? (ma le bambine hanno la loro mamma, le dico, è lei che ha perso sua sorella).
Il secondo incontro con Lisetta e la mamma
Arrivano madre e bambina insieme. La madre ha il viso tirato, mentre Lisetta ha un’aria gentile e sorridente. La madre mi dà la notizia. Io le faccio sedere e chiedo a Lisetta di Alessia (la zia). “Cosa ricordi della zia?”: “Mi portava via la cassetta della Carica dei cento e uno e poi il suo cane (Mattia) si è mangiato le scarpe da tennis di mia sorella… Io e Carolina ieri abbiamo fatto una torre di Lego alta sino al soffitto…”. Poi parliamo del cane che ora deve trovare un padrone. Dice qualcosa di molto leggero per far sorridere la mamma. È proprio impegnatissima nel dire cose gentili.
Le dico che nella seduta precedente avevamo fatto alcune cose, che se vuole possiamo rifarle. Disegna due colline con dei fiori. Poi sceglie di fare un ambiente per i mostrini. Disegna una caverna con dentro due pipistrelli, uno zombie, un fantasma, degli animali rossi; uno viene mangiato dal serpente, mentre fuori un lupo ulula.
È proprio un disegno di paura. Anche se lei è sorridente e carina – è nella situazione di contenere la madre – ha in realtà tanta paura di quello che è successo ma che non emerge. Io dico che potrebbe essere Mattia che si sente arrabbiato come un lupo perché non ha più la sua Alessia e ulula nella notte. Lei si dice d’accordo. Dice che il fantasma e lo zombie sono amici e che sono ambedue dell’orrore (vuol dire dei film ‘horror’).
Sembra che non si possa andare avanti. Allora dico che il disegno dei fiori e della primavera con le due colline è forse visto da fuori, mentre da dentro nella caverna compaiono tutti questi esseri strani. “Sì” – dice lei – “da due punti di vista”. Io aggiungo: “Anche per la zia si può pensare che è in un mondo più bello, di primavera”.
“Io questo non l’avevo pensato”, mi dice. Poi però disegna un omino che diventa viola dalla paura perché vede quello che c’è dentro la caverna.
Intervenire senza verbalizzare l’interpretazione
Questa è una seduta che ricordo come veramente difficile. Ho sentito che non potevo esimermi dal parlare del lutto. Ho pensato che non fosse giusto che io accettassi che “del lutto non si deve parlare”. Attraverso la storia si devono toccare gli affetti che sono in corso.
Mi sembra che questo ci permetta di chiederci qualcosa che verte sul rapporto con i genitori. Che cosa accade che fa vedere ai genitori i loro bambini con occhi nuovi durante la consultazione? I genitori aiutati dalla nostra mediazione, dal nostro essere un po’ gli “enzimi” della situazione affettiva, riescono a recuperare un rapporto con i bambini. Se sono genitori non troppo disturbati possono fare tantissimo; ma anche quando sono in difficoltà, credo che noi abbiamo un compito. La domanda che sempre dobbiamo farci quando i genitori escono dalla stanza è: che cosa abbiamo dato, che cosa abbiamo restituito, quale bambino hanno potuto incontrare?
La situazione è a tre. L’osservatore deve riuscire a tenersi un po’ fuori, a non dare subito significato, a prendersi la responsabilità emotiva della situazione, ma senza intervenire interpretando la situazione, perché questo disturba la mamma del bambino, proprio quando sono loro che devono trovare il loro accordo. Certo come analista qualcosa io faccio – avete visto che con Lisetta ho fatto una sorta di “pronto soccorso”, non è che non abbia parlato della questione – ma quello che la mamma ha potuto capire è che la sua bambina aveva voglia di farla sorridere, che si stava occupando di lei e che però era lei che aveva bisogno di elaborare questo lutto: la bambina faceva di tutto per alleggerirla, ma adesso toccava a lei.
Questo la ha molto aiutata a prendersi carico di se stessa – la madre ha ripreso l’analisi, è tornata dalla sua analista, senza che io le dicessi niente. Questa mi è sembrato una cosa molto importante, poiché lei lo ha capito da sola, spontaneamente, in quella seduta. Me lo ha detto: “Sa quella seduta che lei ha fatto con me e mia figlia... mi ha fatto capire tante cose, che io non potevo sopportare questo lutto, che bisognava che qualcuno mi aiutasse e allora ho preso questa decisione”. Noi talvolta diciamo “Ah, i genitori devono essere seguiti da qualcun altro...” come pure “No, i genitori vogliono venire da noi che seguiamo il loro bambino...”. Io penso che si tratti di un messaggio che non va forzato, ma comunicato attraverso le cose.
Vorrei concludere con una domanda: per i genitori nella stanza di consultazione qual è l’effetto e l’affetto che permette loro di vedere i bambini con occhi nuovi? Nel caso di Lisetta la seduta congiunta ha permesso alla mamma di avvertire la vicinanza della sua bambina. E allora ritorno al titolo: se tu operatore vuoi conoscere come si presentano gli affetti dei bambini, stai attento al modo con cui gestisci la tua curiosità. Non ti occupare di quello che dicono i libri. Neanche il mio. Cerca piuttosto di dimenticati tutto ciò che conosci: non perché questo non ti serva internamente per ispirarti, ma perché bisogna proprio che stai lì con il paziente. Conta quanto e come sei curioso, e da questo vedrai che sorgerà qualcosa che prima non sapevi. Questa è la lezione di Parthenope Bion, che ci è mancata un po’ troppo presto. Lei era molto curiosa, molto, sì.
Discussione
Domanda: Lei ci ha raccontato il caso di Lisetta. Molto spesso vengono dai noi genitori che attraversano un momento in cui non sanno – non sanno cosa fare, cosa sentire, come comportarsi. A me è capitato il caso di un bambino che stava male, dopo che di recente era morto il nonno; ma il problema non era tanto del bambino, quanto dei genitori. E allora è stato un po’ come il l’intervento di “pronto soccorso” che lei ha fatto per Lisetta: ho visto il bambino con i genitori e si è parlato del nonno. Loro non riuscivano a parlare con il bambino del nonno – la cosa non riusciva a entrare nel loro discorso – mentre il bambino l’unica cosa di cui voleva parlare era di questo. E allora, a proposito del poter parlare... lei ha detto che ci avrebbe parlato dell’etimologia della parola affetto, che vuol significa “colpito”, giusto?
Vallino: Adfectio è disposizione d’animo, è uno stato mentale. Invece per dire “affetto” come moto passionale si dice motus, impetus, perturbatio. “Affetto” è lo stato mentale, adfectus; mentre “passione” è vis animi, movimento appassionato dell’animo, perturbazione. Questo mi sembra ci porti a considerare che noi con affetto intendiamo passione, contatto mentale tra due.
Sulla questione del lutto e sul fatto che i bambini hanno necessità di parlare di questo, – devono, possono – mi sembra che ci riporti a riprendere tutta la questione della posizione schizoparanoide e depressiva... fondamentale costruzione... che praticamente è una delle invarianti della psicoanalisi kleiniana che mi pare sia passata anche in altri modelli... perché direi che non c’è nessun modello, nessuna cultura psicoanalitica, che escluda l’importanza dell’oscillazione tra le due posizioni.
Parlare di questo vuol dire considerare che anche nel mio metodo – che vuole dare un posto diverso, rispetto all’impianto kleiniano, alla creatività del bambino, al suo tipo di comunicazione e di linguaggio – non siamo esonerati dal trattare della sofferenza dei bambini, assolutamente. Però sappiamo che il bambino non può parlare direttamente della sua sofferenza. E questo è un punto sorprendente.
Domanda: Nel tuo metodo tu dai la possibilità ai genitori di rappresentarsi il proprio bambino in modo diverso, “con occhi nuovi” come dici. Tu dai impulso ai genitori perché rappresentino loro gli affetti del bambino, mentre tu come analista cerchi di cogliere gli affetti in corso del bambino (da qui l’uso della storia).
Vallino: I due punti che hai trattato sono veramente centrali. Gli “affetti in corso” sono quelli che devono essere metabolizzati nella stona attraverso la storia. Riguardo il dare impulso alla possibilità dei genitori di rappresentare loro qualcosa, bisogna chiedersi quanto questo sia possibile anche quando si presenta una patologia dei genitori. Alcuni di noi non lo credono possibile…
Domanda: …forse ci sostituiamo troppo facilmente ai genitori?...
Vallino: …bisogna sostituirsi, quando non sono in grado di farlo. È un punto che dobbiamo guardare con attenzione.
Meltzer ne Il ruolo educativo della famiglia (1976), il report commissionato dall’OECD, postula le funzioni positive e negative (seminare disperarne, ispirare odio, mettere confusione) della famiglia. In questo modello, quando ci troviamo di fronte a funzioni così negative, come facciamo a trattare con questi genitori? Spesso le patologie gravi dei bambini si combinano a patologie gravi dei genitori... ma non sempre a causa dei genitori. A volte ci sono patologie dei bambini che innescano una grande disperazione nei genitori. È un problema molto importante.
Io sottolineo come si tratti, di volta in volta, di valutare la situazione da vicino. Senza poter ignorare le difficoltà dei genitori, dobbiamo tentare di vedere se anche alcuni dei genitori che appartengono a questa gamma di funzioni negative descritte da Donald Meltzer e Martha Harris, siano in grado di svolgere una funzione di rappresentazione per i loro bambini. Questa è una cosa che possiamo sapere solo dalla stanza di consultazione. Non possiamo saperlo prima, con un giudizio definitorio, dicendo “con questi genitori non trattiamo”. No, dobbiamo provare e poi vedere.
Domanda: Mi sembra che quello che tu stai dicendo quasi ce lo fai sentire, questa atmosfera di accoglimento ce la fai rivivere… Mi sembra però che non solo fai sentire, ma proprio teorizzi, la possibilità di accogliere l’angoscia della mamma col suo lutto e di offrire la possibilità non solo alla madre di contenere la bambina, ma anche alla bambina di accostarsi, quasi di contenere, la madre nel suo dolore.
Mi sembra che poi ci hai detto che è la madre che, a un certo punto, decide di tornare in psicoterapia e che questo è stato motivato anche dal sentire che con te si poteva generare non solamente l’essere accolti da te e dalla figlia, e per la figlia di essere accolta da te e dalla madre, ma anche che in quel momento stavano nascendo due storie separate: quella della madre e quella della bambina.
Credo che ci stai dicendo che noi dobbiamo avere la capacità di cogliere non solo i momenti in cui i genitori non ce la fanno a fare altro che a essere presenti; ma anche quei momenti in cui i genitori possono cominciare a tracciare una storia diversa, allontanarsi – e forse da qui può nascere la possibilità di accogliere la separazione, la diversità, l’assenza. Altrimenti, potrebbe essere rischioso immaginare che dobbiamo essere sempre noi, comunque, a vederli questi genitori. Noi dobbiamo distinguere caso per caso.
Vallino: Io dicevo “vederli” proprio in questo senso: quando un bambino è in terapia, i genitori vogliono parlarci. Ma c’era un assetto per cui si diceva: i genitori vanno da un’altra parte, non possono ogni volta essere coinvolti direttamente nella terapia. Io trovo invece che sia utile fissare un incontro una volta al mese – ma dipende dalla gravità del caso: nei casi più grave c’è bisogno di una volta al mese, se no ogni tre, per dire. Però è importante fissare ogni volta il prossimo incontro.
Sulle modalità di incontro con il bambino, quando faccio la prima consultazione ne parlo direttamente con i genitori: ci sono quelli che non vogliono venire con il bambino, altri che hanno voglia di portarlo senza che io li abbia mai visti prima. Personalmente preferisco questa seconda modalità, che mi aiuta a non farmi in anticipo un’idea della loro storia. Poi alla fine di un breve percorso (quattro o cinque consultazioni), io restituisco ai genitori quello che abbiamo osservato insieme nella consultazione, cosicché quando parlo con i genitori non dico le cose che il bambino mi dice, ma parlo di quello che loro hanno visto insieme a me e che ora possiamo discutere.
Addirittura mi è capitato di dare ai genitori la seduta scritta di quello che ho visto – come ha fatto anche Winnicott. È una cosa che faccio da poco, è successo con una madre che pensava di sbagliare tutto, di essere un disastro e che era in analisi. Allora avevo scritto tutta l’osservazione del gioco in modo che poi l’avremmo riletta insieme punto per punto. Era semplicemente l’osservazione di quello che abbiamo condotto insieme.
All’incontro successivo la madre mi ha espresso alcuni commenti interessanti: “Guardi che non è successo così, è successo in un altro modo”, “Lei non si ricorda bene”, “Ha fatto così, ma perché lei...”. La madre ha cercato di spiegarmi perché, secondo lei, io non avevo dato il pennarello – che la bambina mi chiedeva per sporcare il muro – e mi ha molto sgridato, dicendomi che avrei dovuto darglielo. Per parte mia, io le ho spiegato che non dico sempre sì ai bambini. Abbiamo così avuto modo di discutere di quando dire sì e di quando dire no. Un argomento non semplice, su cui spesso molti genitori sono insofferenti, ma che è stato importante affrontare insieme.
Emerse una situazione, come dicevo prima, in cui c’erano dei problemi in tutti e due, nel bambino come nella madre. In questo caso c’è stato bisogno di scrivere qualcosa in modo da fissarlo per la madre, dandole così la possibilità chiara di apportare un suo contributo. Certo, non è una cosa che farei con tutti.
Domanda: Sugli affetti ci hai dato dei grandi stimoli, distinguendo due tipi di affetti: uno è l’atmosfera emotiva, nel senso del poter seguire l’atmosfera emotiva che si crea nella stanza di consultazione, come se si trattasse di mettersi in ascolto di qualcosa che è come un “rumore di sfondo affettivo” dentro cui si ritrovano alcuni affetti. Mi sembra che il tipo di ascolto che stai proponendo è più in relazione al rumore di sfondo e al dare un riscontro ai genitori del loro livello di rapporto con i bambini, come anche del livello del rapporto dei bambini con loro. Un riscontro in termini di atmosfera.
Quello che ci stai comunicando è un clima, più che teorie o modi di affrontare una situazione. È la possibilità di creare un clima nella stanza di consultazione entro cui è possibile lavorare in modo proficuo e dentro cui anche il genitore viene trasportato. A volta possono essere necessarie delle prescrizioni – per esempio ricordo, in un’altra tua relazione, il caso di quella madre a cui dicevi “Cerchi di aiutare la bambina, non la metta in una situazione di dover mostrare quello che sa fare”; in altri casi magari il discorso viene più naturale.
Dunque mi sembra che metti in luce l’importanza di portare il genitore ad osservare insieme a te il bambino, a non vedere unicamente i suoi disturbi e ad ascoltare l’atmosfera di sfondo. Quindi due cose: sia mettersi in ascolto, sia anche creare in questo modo quel clima che serve per lavorare – in senso bioniano: il mettersi in assetto di lavoro.
Vallino: Quando dici “Mi sembra che ti occupi soprattutto del clima e non d’altro” io vorrei dirti che in realtà questo metodo implica una profondissima revisione teorica, solo che dobbiamo vederla in senso per così dire “bipolare”. Da un lato, quello che tu dici riguardo il rapporto con i genitori, io lo condivido in pieno: con i genitori è proprio questo che faccio, cercare di creare questo clima.
Però l’altro lato del discorso è rivolto a noi, alla nostra comunicazione, alle nostre teorie psicoanalitiche. E lì c’è una profonda revisione dei concetti: sulla funzione della aggressività, della creatività, sulla comparsa dell’aggressività e creatività, sulla comunicazione del bambino, sull’ermeneutica, sul livello della comunicazione, su quanto della comunicazione può essere reso pubblico e quanto no, su quanto il bambino può accettare che la cosa che lui ha in mente venga detta – potrebbe volerla tenere segreta. Quest’ultimo punto, in particolare, comporta una revisione del concetto di rimozione. Per Freud è evidente che la rimozione riguarda pensieri che sono stati fatti una volta e non sono più disponibili; viceversa, la rimozione di cui io parlo è quella di pensieri che non sono mai stati fatti, è la “rimozione del futuro”, di qualche cosa di potenziale – ovvero non di possibile, nel senso usuale del termine, ma di potenziale (qualcosa che sarebbe possibile).
Si tratta di due concetti diversi che mi ha suggerito mio marito. “Possibile” è ciò che io posso fare. Un bambino potrebbe ad esempio chiedersi: “Cosa mi succede se scappo di casa?” “È possibile che scappi di casa?”, “Mi potrebbero succedere cose terribili...”. La potenzialità è però differente: ho la potenzialità di fare certi pensieri, ma non li ho mai fatti.
Sui pensieri che non sono mai stati fatti e che il bambino ha bisogno di fare, c’è bisogno di una teoria nuova. Noi abbiamo usato modelli che nascevano dal confronto tra la psicoanalisi degli adulti e dei bambini e quindi siamo stati obbligati a occuparci della rimozione. Invece i bambini hanno rimozione del futuro, non del passato. Il bambino ha avuto un arresto del proprio pro-getto di vita.
Domanda: In quello che tu ci stai dicendo un punto centrale è la posizione dell’analista, poiché è il controtransfert che diventa centrale. Questo sia nel bene che del male, può anche essere pericolosissimo a un certo livello, nel senso che è come se l’analista a questo livello fosse in un certo senso “senza rete”…
Vallino: …apparentemente, sì…
Domanda: …il rischio può essere proprio nel “raccontami una storia”: il bambino racconta, però l’analista vi partecipa. Ma quanto degli elementi dell’analista, della sua storia personale, vengono messi in opera? Tra gli elementi della storia, inoltre, alcuni possono essere costitutivi del sé del bambino, altri invece possono essere la ripetizione della colonizzazione, per usare una espressione meltzeriana, che i genitori hanno fatto della mente del bambino…
Vallino: …No… ma ti prego di continuare, mi permetterà di chiarire un punto centrale…
Domanda: …in questo senso io sono d’accordo con te: i kleiniani una volta proprio non li volevano vedere i genitori (oggi, credo che anche i kleiniani siano molto cambiati). Invece conoscere la storia, quella dei genitori o quelle che il bambino sa attraverso i genitori, aiuta l’analista ad avere quella “rete” che sembrava mancare.
Ma da dove comincia la storia del bambino? C’è un pre-transfert e un pre-controtransfert già quando riceviamo la prima telefonata? In effetti, già ci narrano di un bambino… Un’altra domanda è: quanti elementi di proiezione, di fantasia, l’analista può mettere nell’incontro con un bambino in questa situazione del “raccontami una storia”?
Vallino: Ti ringrazio di queste domande importantissime. Se non si risponde, questo metodo non va avanti. O è un metodo, o è una proiezione dell’analista.
Io uso ancora la parola controtransfert, altri la rifiutano – come Bion. Si tratta comunque dell’uso dei vissuti che l’analista ha. C’è un bel lavoro di José Waksman – “Il controtransfert dell’analista di bambini” (1984) – in cui racconta un po’ quello che tu dici, sul fatto che l’analista di bambini ha avuto a sua volta una storia e che quindi esiste il pericolo che la porti dentro la stanza di consultazione.
Se però si fa il lavoro terapeutico con la storia, noi non abbiamo più i genitori che ci vengono a dirci qual è la storia, a dare loro le informazioni; così, se usiamo il controtransfert, dobbiamo usare una griglia, non possiamo essere irretiti e neppure ingabbiati.
Ci sono più risposte. Il problema è, ancora una volta, di metodo. Il nostro compito è di fare in modo che il paziente non voglia più fare la storia, ma parlare di se stesso, possa avvicinare se tesso. Fanno parte del metodo le domande, che sono anche le regole della narrazione. L’entrata nel Luogo Immaginario è il primo punto, è una metafora ordinatrice, è quella che dà una griglia. Ma ci sono poi le sedute senza storia: a un certo punto il bambino vuole cessare di fare storie – questo è il nostro obiettivo.
Della personificazione ha parlato in modo tanto ricco e esauriente Melanie Klein e quindi non ne parlo. Alcuni bambini possono personificare, altri no. In “Raccontami una storia” (1998) parlo del caso di Kate, una bambina che entra in seduta con le mani come per farmi paura, dicendo “Io sono una strega”. La mamma – che è competente e ha paura che la figlia diventi schizofrenica – è capace di cogliere la patologia della figlia in concomitanza con la crescente impossibilità di educarla: non riesce più ad entrare in contatto con lei perché “fa sempre la strega”. Con Kate, come con altri bambini, inizio facendo domande di buon senso: “Che cosa sei venuta a fare qui?” “Sai, mamma mi ha detto che tu non dormi… che non vuoi andare più a scuola…”. In questo modo incomincio ad orientarmi, a capire quanto prendono dai genitori – quanto riescono a prendere. Kate però non mi risponde; allora dico “Va bene, se proprio c’è una strega, diamole una casa, diciamo dove abita”. Questo è l’inizio del Luogo Immaginario.
È una metafora ordinatrice, perché c’è già; però in esso lei è come intrappolata. Non è il rifugio di John Steiner, cioè il luogo in cui il paziente se ne va, ritirandosi sempre di più. Non è neanche le conchiglie della Tustin o il claustrum di Meltzer; non è neanche il luogo fantastico di Resnik. È un topos ordinativo della situazione in cui il bambino si trova: è un luogo dell’orrore nel quale è intrappolato. Se un bambino sa immaginare ed è dentro il “suo” Luogo immaginario, io ho la responsabilità di farlo uscire, di dargli modo [aiutarlo ad] di andare da un’altra parte.
Con Kate si assiste a una cosa curiosissima. Quando incominciamo a fare storie, dopo le prime legate alla “strega”, lei decide di fare la storia di una grande famiglia. Si tratta di un evento molto importante. Nella famiglia di Kate c’è un problema di cui non si può parlare: lei ha un padre naturale, che l’ha riconosciuta, e che ha un’altra grande famiglia in cui però non la fa mai entrare. Kate passa l’infanzia a desiderare di poter conoscere la famiglia del padre, che è sempre via; passa le domeniche in casa con la madre a aspettare il padre, per giocare un po’. Quando comincia a fare la storia di una grande famiglia, che abita in una fattoria ed è amica di un’altra famiglia vicina, ecco che incomincia a fare storie di gente per bene: non vuole più fare la storia della strega.
Riferimenti bibliografici
AA.VV. (1986). “Il dolore mentale”. VII Congresso Nazionale della Società Psicoanalitica Italiana, Bologna.
BION TALAMO P., BORGOGNO F., MERCIAI S.A. (ed., 1998). Lavorare con Bion. Roma: Borla.
BION W. (1985). Seminari italiani. Roma: Borla.
CORRAO F. (1992). Modelli psicoanalitici. Mito, passione, memoria. Bari: Laterza.
MELTZER D. (1992). Claustrum. Uno studio dei fenomeni claustrofobici. Milano: Raffaello Cortina, 1993.
MELTZER D., HARRIS M. (1976). Il ruolo educativo della famiglia. Un modello psicoanalitico dei processi di apprendimento. Torino: Centro Scientifico Editore 1986.
KLEIN M. (1929). La personificazione nel gioco infantile. In: Scritti 1921-1958. Torino: Bollati Boringhieri 1978.
RESNIK S. (1993). Sul fantastico. Tra l’immaginario e l’onirico. Torino: Bollati Boringhieri.
STEINER J. (1993). I rifugi della mente. Torino: Bollati Boringhieri 1996.
TUSTIN F. (1990). Protezioni autistiche nei bambini e negli adulti. Milano: Raffaello Cortina 1991.
VALLINO D. (1998). Raccontami una storia. Dalla consultazione all’analisi. Nuova edizione. Milano: Mimesis 2021.
WAKSMAN J.D. (1986). The Countertransference of the Child Analyst. International Review of Psychoanalysis, 13: 405-415.