Giovanna Maggioni: Il bambino non visto e i suoi genitori nell'incontro analitico

In seduta congiunta appare un bambino sconosciuto ai genitori

 

In seduta, negli incontri congiunti genitori-bambino, si manifesta con evidenza un bambino prima sconosciuto ai suoi genitori.

Intendo mostrare come, in seduta, negli incontri congiunti genitori-bambino, si manifesta con evidenza un bambino prima sconosciuto ai suoi genitori.

Mi sembra opportuno iniziare con qualche considerazione riguardo la scelta del titolo “Il bambino non visto e i suoi genitori nell’incontro analitico”, che sembrerebbe contenere una affermazione in qualche modo contraddittoria. Per poter parlare infatti di un oggetto “non visibile” bisogna aver potuto fare esperienza di una qualche sua forma di visibilità. Si potrebbe allora affermare che le caratteristiche, i bisogni, le emozioni di un bambino, che non sono visibili in determinate circostanze, si rendono invece visibili in altre.

dipinto di Georges de la Tour: dettaglio da PastoriQuesto è quanto mi sembra accadere nell’incontro congiunto genitori bambino quando alla nostra osservazione si manifesta con assoluta evidenza e “visibilità” un bambino sconosciuto e non visibile ai suoi genitori.

Utilizzerò il termine “vedere” nella ricchezza dei suoi significati: percepire con gli occhi, guardare, osservare, prendere in considerazione e dunque comprendere e rendersi conto. Non essere visti e considerati è connotato di significati di svalutazione anche nel linguaggio comune. Essere visti e riconosciuti è una esperienza fondante il senso di identità e il diritto all’esistenza.

Può essere a volte troppo doloroso vedere il proprio bambino per ciò che è (come nei casi di un grave handicap irreversibile), possiamo però considerare che spesso la distorta o impossibile visibilità di un figlio è causata da un inadeguato sviluppo della capacità empatica dei genitori: una presenza troppo ingombrante di identificazioni patologiche inconsce dei genitori, per esempio interferisce nello sviluppo delle relazioni precoci.1

L’esperienza dell’Infant observation mi ha permesso di comprendere, all’interno della relazione precoce, come il neonato è persona dotata sin dalla nascita di una disponibilità affettiva ad interagire con la madre e come la capacità della madre di vedere il suo piccolo, ascoltando e dando significato ai suoi richiami, è la premessa necessaria per lo sviluppo armonico del bambino.

L’esperienza dell’Infant observation può aiutarci, attraverso lo sviluppo di una nostra capacità osservativa, a saper ascoltare il linguaggio delle prime relazioni, la cui trama si compone di quasi inafferrabili segni, non immediatamente riconoscibili.

A titolo esemplificativo riferisco una vignetta tratta dalla mia personale esperienza di Infant observation riguardo alla piccola Anna, di quasi 2 mesi, e alla madre Maria.

Quando arrivo per la mia osservazione (la settima) la madre, con Anna, è di ritorno da una visita di controllo per la piccola, evento che ha frastornato entrambe. La madre cambia il pannolino alla bambina che inizia a piangere in modo un po’ soffocato, costituito da singhiozzi rotti. Dopo aver cambiato la piccola, mi spiega che è un pianto di protesta. Avvolge Anna in una coperta e la prende in braccio cullandola. Anna continua il suo pianto guardando la mamma negli occhi con immensa tristezza. La madre distoglie lo sguardo, prende il ciuccio e lo mette con decisione in bocca alla piccola. Anna non vuole il ciuccio, lo sputa, chiude gli occhi e continua a piangere. La mamma riprova a darle il ciuccio tenendole la mano sulla bocca. Anna inizia a succhiare e spalanca gli occhi. Non c’è più lo sguardo, ma due occhi appannati, spalancati sull’esterno che sembrano non vedere.

In questa breve sequenza possiamo osservare l’insistenza di Anna nel tentare di richiamare la madre ma anche l’inefficacia del richiamo. La madre non riesce ad accogliere la comunicazione-protesta  della piccola.

Si crea allora un fraintendimento che appanna gli occhi e occulta l’emozione di fondo.

 Utilizzando il modello della Consultazione partecipata e prolungata (Vallino, 1984, 2009) cercherò di illustrare la possibilità di aiutare i genitori a guardare i loro figli.

Come accennavo i genitori che sanno “guardare” il proprio figlio e riconoscerne i bisogni permettono al bambino di sviluppare, sin da neonato, attraverso l’esperienza di ritrovarsi nello sguardo dell’altro, un senso di esistere (Vallino & Macciò, 2004), condizione necessaria per uno sviluppo armonico. Durante la consultazione, è la nostra mente che deve divenire capace di guardare la relazione dei genitori con il bambino, offrendo un ascolto rispettoso (Robutti, 2001) e non intrusivo, capace di reverie. Sappiamo della necessità di sapersi calare nella atmosfera emotiva familiare (Vallino, 1992, pp. 617-637) intendendo con questo termine le emozioni, espresse a livello verbale e non, presenti nella stanza e che possiamo cogliere anche come un senso di piacere nell’incontro oppure di costrizione e oppressione.

Il materiale clinico che presenterò è relativo a due bimbi di 3 e 4 anni, che hanno la possibilità di giocare simbolicamente e non presentano quindi un quadro psicopatologico grave.

Il vertice che io assumerò è la relazione genitori-bambino nel gioco. Utilizzo il gioco sia come espressione attraverso le personificazioni di conflitti e pulsioni intrapsichiche, che come elaborazione di stati emotivi presenti nella stanza. L’attenzione è rivolta alla modalità con cui i genitori intervengono: vi è una interazione che arricchisce e sostiene il gioco oppure gli interventi dei genitori sono intrusivi, svalutanti? E’possibile sviluppare “un gioco narrativo” (Vallino & Macciò, 2004, p. 214) di cui i genitori riescono a sostenere la logica sottostante rispettando le scelte del figlio?

Quando questo non è possibile, a causa di una incapacità dei genitori di empatizzare con il bambino, la narrazione non decolla. Il bambino mostra allora nel gioco i segni della sua sofferenza: rabbia, umiliazione, senso di non esistenza. Noi li “vediamo” e li soffriamo accanto a genitori che sembrano accecati da “altro”. Abbiamo l’impressione di trovarci immersi in una babele delle lingue che impedisce l’incontro e la comprensione.

Nella prima esemplificazione che presenterò vorrei mostrare come la seduta di gioco congiunta ci permette di entrare direttamente nel vivo di una situazione di “non visibilità del bambino” e dunque di impossibilità a sviluppare un gioco condiviso.

Prima esemplificazione clinica

I genitori di Matteo mi chiamano perché molto preoccupati per l’ingestibilità del loro bambino che ha da poco compiuto 4 anni. Il bambino, dicono, è oppositivo e capriccioso oltre quello che a loro sembra accettabile in considerazione all’età. Un fatto particolarmente inquietante è che tale ingestibilità sembra essersi scatenata in concomitanza con l’allontanamento dall’asilo di un amichetto di Matteo. Questo bambino, si diceva, avesse subito molestie sessuali ad opera di personale operante in quella scuola, personale sospeso dall’attività e in attesa di processo.

Incontro prima i genitori da soli che vedo per un paio di colloqui. I genitori mi trasmettono da subito una certa difficoltà a potersi fidare e un discreto scetticismo nei confronti della psicoanalisi. Provengono da un ambiente sociale medio borghese, pervaso da una cultura positivista, che vede nel bambino un “animaletto selvaggio” da domare. Il padre in particolare è stato vittima di una educazione repressiva che prevedeva anche l’uso di punizioni corporali per raggiungere la sottomissione. Dai colloqui apprendo che Matteo ha un fratello maggiore di due anni e una sorellina che ha da poco compiuto un anno. Non sembra emergere nulla di significativo nella storia di Matteo, descritto come un bambino molto precoce. In questa sintetica presentazione non posso non accennare al racconto ricorrente, che i genitori mi riferiscono, di figure di riferimento importanti che “scompaiono” (le tate, la nonna, l’orsetto, i compagni di scuola) e una certa atmosfera caotica e persecutoria dalla quale sembra impossibile sottrarsi (per esempio non è possibile pensare ad un cambio di asilo per Matteo, sebbene pare che il bambino sia stato disturbato proprio in quella scuola, come se non sottrarsi fosse prova di forza e coraggio). Decidiamo di vederci con Matteo.

Arrivano puntuali all’appuntamento. La mamma con voce stentorea e squillante fa le presentazioni (già in questa tonalità di voce mi sembra di avvertire una certa ansia). Io mi limito a confermare le presentazioni della mamma, invitandoli a seguirmi nella stanza. Ci accomodiamo sulle poltroncine che ho predisposto: il papà vicino alla finestra, la mamma al lato opposto con Matteo in braccio, io sono seduta di fronte a loro. Matteo è un bel bambino, alto per l’età, sembra più grande. La mamma lo cinge in vita con le braccia. Racconto che quello che faremo sarà giocare raccontare, disegnare un po’. Rivolgendomi a Matteo gli riferisco che mamma e papà mi hanno chiesto aiuto perché giocare insieme sembra proprio essere qualcosa di molto difficile. La mamma a questo punto interviene e rivolgendosi al bambino dice: “Matteo, guarda quanti giochi” invitandolo, con queste parole, ad esplorare un cestino che ho predisposto sul pavimento.

Matteo scende dalle ginocchia della mamma e si avvicina al cestino. Si gira verso la mamma volgendomi le spalle. Anche il papà si avvicina. Insieme frugano nel cestino e prendono i soldatini. Mamma e papà intervengono dando spiegazioni molto tecniche del tipo: “questo è tedesco questo è americano” che a me sembrano adatte ad un bambino più grande (forse al fratello?) e dispongono i soldatini in fila, sul pavimento. Matteo allora si rivolge ai contenuti di un altro cestino che rovescia per terra. (Penso ma non dico che forse il fiume di parole ha stoppato la curiosità del bambino e che forse questo parlare dei genitori ad un bambino più grande lo ha in qualche modo estraniato. Sarà per questo che rivolge l’attenzione ad un altro cestino e lo rovescia?). Matteo prende un dinosauro morbido ed inizia a farlo lottare con altri animali. Papà chiede con insistenza: “ma questo dinosauro è cattivo? E’ carnivoro o erbivoro?” (Ho l’impressione che di nuovo il bambino venga investito di domande). Matteo risponde prima che è carnivoro, poi che è erbivoro e infine lo abbandona sul pavimento. (Di nuovo Matteo abbandona il gioco, forse nel tentativo di sottrarsi e evitare le attese paterne?). Vero è che il bambino sposta l’interesse verso i pentolini.

La mamma intanto mostra altri animali denotandoli, ne descrive le caratteristiche e le abitudini. Il papà insiste con la cattiveria. (Io penso: ma chi sarà il cattivo?). Resto in silenzio, oppressa dalla sensazione di uno spazio reso saturo dalle proiezioni e dalla incomprensione dei genitori. A questo punto sembra che l’unica funzione analitica possibile sia la capacità negativa2.

Matteo si mette un pentolino in testa e poi lo toglie e io ho finalmente la possibilità di dire qualcosa: “ma che bel cappellino ti sei fatto Matteo”. Questo intervento è un tentativo di sostenere il gioco del bambino e favorirne lo sviluppo. Matteo mette alcuni animali sotto il pentolino e dice sottovoce: “vanno nella casetta” e sembra diventato più piccolo, anche nel modo di esprimersi. (La casetta mi sembra rappresentare il luogo dell’incontro, dove si può trovare protezione).

Prende il dinosauro morbido che fa saltare qua e là sul pavimento. Papà chiede cosa succede. Matteo risponde: “ci sono morti e scoppiature …un campo minato con bombette”. (Papà con questa domanda sembra avvicinarsi al gioco del bambino). A questo punto i genitori si scambiano una occhiata di intesa, forse riferita a quello che mi avevano precedentemente raccontato riguardo alla presunta aggressività del bambino. Papà aggiunge: “proprio non ci sono amici, tutti contro tutti”. Io sento in questo intervento la difficoltà del padre a rispettare l’intenzionalità e il significato del gioco del bambino. Matteo ritorna allora ai soldatini ripetendo le definizioni date da mamma e papà, atteggiandosi da grande, come se dovesse imitare il fratello maggiore, non trovando spazio per sviluppare un suo gioco. Esplicito questo mio pensiero, rivolgendomi a Matteo con la seguente domanda: “Mamma e papà mi hanno raccontato che hai anche un fratello più grande. Giocate insieme a soldatini?”. Matteo mi risponde di sì e aggiunge che giocano anche a Gormiti. Mi racconta dei suoi Gormiti preferiti. La mamma è stupita della mia competenza sull’argomento.

Papà è sempre molto preoccupato di distinguere buoni e cattivi. La mamma propone di fare un accampamento. Dispone la torre di avvistamento, la pista per decollare e una fila di animali pronta per il decollo. Matteo per due volte mette in scena la storia di un paracadutista che non riesce a volare perché subito viene abbattuto. Papà e mamma si scambiano il solito sguardo di intesa. (Forse nell’essere “abbattuto” del paracadutista, possiamo intravedere la rappresentazione di un gioco che non decolla?). Purtroppo non ci resta ancora molto tempo per giocare e lo comunico ai genitori e al bambino. Matteo allora dispone su due file indiani e cow boy e li conta ripetutamente. Ad un tratto il capo tribù esce dalle file e dice “cacca molle” con tutta la spontaneità di un bambino di 4 anni. Mamma e papà sono sorpresi e guardano Matteo con disappunto. Io sottolineo che nella lingua degli indiani “cacca molle” potrebbe avere un significato molto importante. Matteo mette in scena un combattimento. Dobbiamo però salutarci. Matteo dice alla mamma qualcosa nell’orecchio.

Chiedo: “Posso provare a indovinare? Vuoi portare a casa l’indiano cacca molle?” Matteo annuisce ridendo. (Mi sembra che con questa richiesta il bambino cerchi di esprimere sentimenti di profonda svalutazione che hanno però trovato nel gioco una possibilità di riconoscimento e dunque di visibilità).

Ho scelto questo materiale clinico perché mi sembra illustrare con chiarezza come numerose identificazioni proiettive,da parte dei genitori, di significati adulti di persecuzione e di inimicizia nel gioco del bambino ne impedisca lo sviluppo, togliendo visibilità al bambino stesso. In un colloquio successivo con i genitori, senza Matteo, ho la possibilità di commentare la seduta a partire dal materiale, ad esempio dico ai genitori che in quella situazione Matteo non mi è parso particolarmente oppositivo o capriccioso, ma piuttosto in difficoltà a sviluppare un gioco e a condividerlo con loro. Il desiderio di portare a casa il soldatino che diceva “cacca molle ” potrebbe essere un tentativo di cercare un riconoscimento e di esprimere sentimenti di svalutazione. Chiedo cosa ne pensano di questo. Non ottengo risposta, ma chiedo di raccontarmi quali sono le situazioni in cui Matteo diviene ingestibile. I genitori mi portano come esempio che dal parrucchiere Matteo sembra un matto, urla disperato, devono immobilizzarlo per tagliargli i capelli. Dopo il taglio si mette un cappellino e non vuole più toglierlo. (Questo racconto mi rievoca il pentolino in testa nella seduta di consultazione.) Raccontano le difficoltà di Matteo a trovare un suo spazio, forse perché nella posizione di secondogenito non può permettersi di sentirsi grande ma nemmeno piccolo ed emerge una intensa rivalità nella relazione fraterna. Dico ai genitori che mi sembra importante aiutare il bambino a sviluppare un gioco che possa rappresentare questi vissuti di inadeguatezza e di svalutazione. Decidiamo allora di prolungare la consultazione, allo scopo di permettere a Matteo lo spazio per potersi esprimere e ai suoi genitori di poter capire quello che il bambino vive.

La consultazione con Matteo e i suoi genitori durerà circa sei mesi. I genitori vengono rassicurati dallo sviluppo delle indagini giudiziarie nell’asilo, circa l’incolumità per il loro bambino.

Mi sembra importante sottolineare come la consultazione, iniziata sulla base di una motivazione esterna, a partire da una situazione di emergenza estremamente angosciante, abbia potuto continuare grazie al riconoscimento di una difficoltà nella relazione tra i genitori e il bambino. Matteo “non visto” da mamma e papà non trovava uno spazio per rendersi visibile se non facendo capricci e cercava così la possibilità di protestare e rifiutare alcune richieste e attese da parte dei suoi genitori. È idoneo fare qui riferimento al concetto di spoilt children di Borgogno (Borgogno & Vallino, 2006, pp. 107-148), che vede nel bambino viziato un bambino arrabbiato perché non solo depauperato di un riconoscimento dei suoi vissuti ma anche invaso dalle proiezioni genitoriali. Negli ultimi tempi della consultazione Matteo costruisce nella stanza con la mamma “la casa degli animali” e insieme giocano a come far parlare tra loro animali di diverse razze e dimensioni. Questo gioco mi suggerisce la seguente considerazione: la capacità di comunicare non è data o persa definitivamente, ma si può costruire a partire da un gioco che permette di capirsi, se pur nella diversità di linguaggi, come può accadere tra adulti e bambini.

Seconda esemplificazione clinica

I genitori di Michele chiedono aiuto perché il bambino che ha da poco compiuto 3 anni presenta a intermittenza una balbuzie che sembra accentuarsi sino ad impedire la comunicazione in concomitanza di discussioni tra genitori e di cambiamenti nella vita familiare (trasferimenti, vacanze) per attenuarsi sino a scomparire quando il bambino riceve maggiori attenzioni. I genitori si sono trasferiti a Milano dopo il matrimonio e mantengono con la famiglia di origine un rapporto dove sembra essere difficile trovare una giusta distanza. Il bimbo è stato desiderato, ma la sua presenza sin dall’annuncio della gravidanza è da subito avvertita come prematura. Infatti così dice la madre: “Con Michele tutto avviene prima che io sia pronta”. Il parto però viene vissuto come troppo lento e il taglio del cordone ombelicale è sentito come una recisione violenta. La mamma riferisce di essersi riconosciuta poco adeguata ad occuparsi del piccolo e di aver chiesto aiuto al marito il quale aveva però la tendenza a sostituirsi a lei nell’accudimento di Michele, sia perché riteneva la moglie troppo ansiosa nei confronti del piccolo, sia perché era geloso delle attenzioni che la moglie rivolgeva al figlio.

Quando incontro Michele vedo un bellissimo bambino, con uno sviluppo complessivo che mi pare quasi precoce per l’età. Effettivamente fatica quando deve iniziare a pronunciare le parole e ripete più volte le sillabe. Durante le prime sedute di gioco emerge una difficoltà dei genitori a giocare con il bambino. Il gioco sembra essere dominato dai personaggi televisivi. I genitori sembrano imporre un gioco al bambino e sono pervasi da una ansia da prestazione, insistono affinché Michele completi una storia secondo uno schema prestabilito e pretendono che ricordi con precisione le sequenze di un film. Spesso parlano di lui come se non fosse presente nella stanza. Michele allora si arrabbia molto, scaglia oggetti, mentre mamma e papà assumono una espressione astiosa e tagliente, quasi ostile al bambino, spaventati da queste manifestazioni. Durante queste prime osservazioni, cerco di dar voce a Michele attraverso semplici domande. Per esempio durante una seduta di gioco la mamma mi ha raccontato che c’è stata la festa all’asilo e i bambini hanno cantato in coro ma Michele ha pianto tutto il tempo. Allora io rivolgendomi a Michele ho commentato che a volte i bambini si sentono un po’ persi quando ci sono tante persone, e gli ho chiesto se in quella situazione avrebbe preferito stare vicino a mamma e papà. Nel rivolgere questa domanda certamente non mi aspettavo una risposta dal bambino ma ho cercato di aprire uno spazio al riconoscimento dei suoi vissuti. Sin dalle prime sedute Michele sceglie un orsetto che ci seguirà durante il nostro lavoro rappresentando una parte piccola e bisognosa di attenzioni. L’orsetto verrà portato a casa al termine di ogni seduta e riportato diligentemente nella seduta successiva per esplicita richiesta del piccolo. Presenterò ora una seduta che avviene circa dopo un mese e mezzo di lavoro secondo il setting proprio della Consultazione partecipata, che prevede sedute di gioco con la presenza contemporanea del bambino e dei suoi genitori, e colloqui con i soli genitori, durante i quali si commenta il materiale delle sedute.

Michele arriva puntuale all’appuntamento, accompagnato per mano dalla mamma. C’è una atmosfera festosa. La mamma mi saluta sorridente, mi dice che è andata bene la settimana, sono stati bene....insomma un’altra vita. Michele aveva tanta voglia di venire a giocare e non stava più nella pelle. Si rivolge a me e dice : “Michele mi ha detto che non vuole andare a mangiare la pizza, vuole andare solo a giocare dalla dott.ssa Giovanna ”.

Michele sorride un po’ vergognoso, nascondendo il viso contro la mamma. Prende dal sacchetto che la mamma ha in mano il solito orsetto e due gattini del Lego che ha voluto portare a casa dopo l’ultima seduta. La mamma mi racconta che in questo ultimo periodo sono stati i gattini a ricevere principalmente le attenzioni di Michele. Li ha sempre portati con sè, per fare il bagnetto e anche per fare la nanna. Suona il citofono, io sento questo rumore come una brusca irruzione nella atmosfera della stanza: è il papà che ci raggiunge, ha una espressione un po’ tesa, della quale non colgo il significato. Intanto Michele ha preso dal cestino dei giochi un piccolo cane e lo mostra alla mamma. Dice “è come Bubu”. La mamma allora chiede a Michele: “vuoi che raccontiamo alla dottoressa chi è Bubu?”. Michele annuisce. La mamma allora mi riferisce che un vicino di casa ha legato il cane alla catena e ha detto a Michele che lo ha messo in castigo perché è stato cattivo. Michele allora si è messo a piangere. Non comprendo il significato di questo racconto della mamma, allora mi rivolgo al bambino e chiedo: “Michele, eri dispiaciuto per Bubu?”. Michele non risponde, è attratto dalla cesta di Lego che ho preparato sul pavimento e inizia a frugare nella scatola che rovescia, per estrarre agevolmente il contenuto. Assembla qualche mattoncino. Papà allora si siede vicino a lui e interviene nel gioco proponendo di costruire una torre. Michele dice un risoluto no. Papà allora insiste alzando la voce. Michele ripete di no. Papà è visibilmente offeso, come un bambino. (Mi sembra che il papà nel giocare con il bambino smarrisca le sue funzioni adulte). Dico che papà può ugualmente costruire la sua torre, se ha piacere, e gli porgo dei mattoncini. Papà allora inizia ad assemblare il Lego per fare una torre. Michele dice che deve fare pipì e chiede alla mamma di accompagnarlo. E’ di nuovo lotta. Vorrebbe essere papà ad accompagnare il bambino a fare pipì, ma Michele non vuole e il papà si offende. (Ho l’impressione che i genitori impegnati nella contesa dimentichino il bambino. Mi chiedo che cosa può accadere durante le loro discussioni in casa). Il bambino esce dalla stanza con la mamma per andare in bagno, resto per un breve tempo sola con il papà, che mi racconta di zio Gianni fratello minore del padre, molto amato dal bambino e di zia Roberta, sorella minore della madre ugualmente amata. (Questo racconto mi sembra un tentativo di bonificare l’atmosfera della stanza dalla precedente tensione). Michele dopo essere rientrato con la mamma si inginocchia vicino al Lego e le chiede di aiutarlo a costruire un asilo. Iniziano ad assemblare i mattoncini. Ho l’impressione che il papà si senta escluso dal gioco, perché interviene con commenti che rivendicano le sue maggiori competenze. (Di nuovo ho l’impressione di trovarmi con tre bambini che bisticciano). Michele e la mamma animano l’asilo con maestre e bambini. Papà chiede se nell’asilo hanno messo anche la Sofi. Mamma mi spiega che è la fidanzatina di Michele. Papà sottolinea di nuovo con tono ironico la storia della fidanzatina e a me pare quasi un po’ provocatorio nei confronti del bambino. Michele allora prende il bidone vuoto del Lego e lo lancia. I genitori sembrano spaventati dal gesto del bambino, ma assolutamente incapaci di dare un contenimento. Osservo che forse Michele che non vuole che mamma e papà mi raccontino che lui ha una fidanzata, che bisognerebbe proprio trovare un modo per farlo capire senza lanciare. Dopo questo intervento, il bambino riprende a costruire con il Lego e arricchisce l’asilo. Aggiunge i due gattini e dice che sono una mamma e un cucciolo. Comunico che la seduta è quasi finita. Michele vorrebbe portarsi a casa il Lego, ma gli spiego che non è possibile. Mi dice allora che vuole fare un disegno e traccia sul foglio un ovale che colora di giallo, aiutato dalla mamma. Poi aggiunge gli occhi e la bocca. La mamma allora si rivolge a Michele e chiede: “chi è?” Michele risponde: “è il papà”. [Vedi Allegato].

La mamma considera che è il primo vero disegno di Michele e chiede al bambino: “sei sicuro che non gli manca niente?” (credo facendo riferimento a particolari fisici). A questo punto il bambino con assoluta sicurezza risponde: “certo, gli manca la mamma”.

La successiva lettura, con i genitori, della seduta di gioco li lascia sbalorditi, come se la possibilità di dare attenzione e significato alla loro relazione con il bambino, attraverso il commento del gioco, aprisse la porta ad un mondo di emozioni ed affetti sconosciuto.

Per esempio è stato possibile interrogarsi riguardo al disegno del bambino e chiedere ai genitori cosa pensassero a proposito della affermazione “gli manca la mamma”. A chi manca la mamma, a Michele, a papà, a mamma? A questa mia domanda i genitori hanno risposto con importanti riferimenti ad esperienze abbandoniche presenti nella loro storia infantile, attivate in particolare da conflitti nelle famiglie. Abbiamo potuto considerare che forse la mamma manca un po’ a tutti e tre se intendiamo con essa una funzione mentale capace di dare significati, di consolare, di far sentire meno soli. E’ stato possibile allora esplicitare il bisogno di una funzione mentale adulta (Bion, 1970) capace di ristabilire una continuità facendo fronte ad esperienze di continue rotture (mi sono chiesta se il sintomo della balbuzie di Michele potesse rappresentare una espressione in tal senso). Nel corso della consultazione, durata circa sei mesi il bambino ha smesso di balbettare.

L’incontro analitico con genitori e bambini può dunque avvenire quando è possibile costruire una comune esperienza, i cui significati possono essere condivisi. Il gioco narrativo (Vallino & Macciò, 2004, pp. 124-126) per esempio, personificazione e rappresentazione condivisa di tematiche intrapsichiche e relazionali, può a ragione essere considerato il luogo elettivo dell’incontro. Lo sviluppo del gioco nelle diverse sedute permette al bambino di rappresentare i conflitti. Poter parlare con i genitori del gioco del bambino permette loro di “guardare” tali rappresentazioni, migliorando le capacità empatiche e dunque la visibilità del figlio. Noi tutti abbiamo esperienza di “restituzioni” competenti riguardo alla psicopatologia di un bambino che sono incomprensibili per i genitori e che non trovano pertanto una risonanza emotiva adeguata, suscitando invece un senso di inadeguatezza o di colpa, e la sottomessa delega ad un esperto. Questo ultimo punto mi sembra particolarmente importante, soprattutto quando la consultazione è la premessa ad una successiva terapia del bambino, nella quale “l’alleanza con i genitori”, come sappiamo, è un ingrediente fondamentale.

Certamente il materiale che ho presentato illustra delle situazioni “fortunate”, dove è stato possibile “giocare” con i genitori. A volte accade che la psicopatologia di uno o di entrambi i genitore impediscano il riconoscimento dei bisogni del figlio, e che si renda indispensabile un lungo lavoro analitico con il/i genitori.

I genitori che bussano alla nostra porta però, sono più frequentemente genitori in crisi, confusi e angosciati per le difficoltà con i loro bambini e che pur con tutte le ambivalenze, ci chiedono di essere aiutati. Sta a noi rendere possibile l’incontro andando là dove possono essere incontrati. Nissim Momigliano suggeriva all’analista di <> quando si presentava una difficoltà nel dialogo analitico che impediva la comprensione (Nissim Momigliano, 1992, p. 35). Mi sembra che quando un bambino soffre di non visibilità nella relazione con i suoi genitori, quello che noi dobbiamo fare è permettere ai genitori l’esperienza di provare a guardare con gli occhi del loro bambino.

Note

1  A proposito dei fattori che ostacolano lo sviluppo di una adeguata capacità empatica nei genitori sono stati scritti molti lavori. Magagna (Magagna, 2006, pp. 161-172) ha mostrato come le rappresentazioni del bambino nella mente dei genitori possono produrre fantasie sul bambino che lo soverchiano.

2  Meltzer così illustra la Capacità negativa: " Egli (Bion) ha trovato una formulazione per esprimere la tolleranza all’angoscia [...] l’ha trovata in una lettera di Keats ai suoi fratelli in cui Keats descriveva la capacità di tollerare l’incertezza, la “capacità negativa” che riteneva sottostante all’opera di Shakespeare, scrittore che egli venerava più di tutti gli altri" (Meltzer,1982, p. 136)

Bibliografia

Bion W. R. (1972), Apprendere dall’esperienza, Armando Editore, Roma, 1979.

 Bion W. R. (1970) , Attenzione e interpretazione , Armando , Roma , 1973.

 Borgogno F., Vallino D. (2006), Spoilt Children. Un dialogo fra psicoanalisti, Quaderni di psicoterapia infantile 52, pp. 107-148. Borla, Roma, 2006.

 Magagna J. (2006), Insegnare l’osservazione infantile: sviluppare un linguaggio di comprensione. InTrasformazioni intime, Astrolabio, Roma, 2006.

 Meltzer D. (1982), Lo sviluppo kleiniano, vol. 3, Borla, Roma, 1982.

 Nissim Momigliano L., (1992), Due  persone che parlano in una stanza. In Nissim Momigliano L., Robutti A., (a cura di) L’esperienza condivisa. Raffaello Cortina, Milano.

 Robutti A. (2001), Introduzione. In Nissim Momigliano L., (a cura di) L’ascolto rispettoso. Scritti Psicoanalitici, Raffaello Cortina, Milano, 2001.

 Vallino D. (1984), L’avvio della Consultazione partecipata. In ( a cura di M. L. Algini) Sulla storia della psicoanalisi infantile in Italia (2007) , Quad. Psicoter. Inf. ,55.

 Vallino D. (1992), Atmosfera emotiva e affetti. Rivista di Psicoanalisi. Vol. 3, anno XXXVIII, Borla, Roma, 1992.

 Vallino D., Maccio' M. (2004), Il senso di esistere del neonato e l’attrazione fatale dell’identificazione. In Borgogno F., (a cura di) Ferenczi oggi, Bollati Boringhieri,Torino, 2004.

 Vallino D. , Maccio M. (2004), Essere neonati, osservazioni psicoanalitiche, Borla, Roma, 2004.

Vallino D.  (2009), Fare Psicoanalisi con genitori e bambini , Borla , Roma , 2009.

 *  Il saggio è stato pubblicato in Famiglie  (a cura di Dina Vallino e Marco Maccio'),  Quaderni di psicoterapia infantile n.63, Borla,  Roma 2011. L'Autrice è psicologa, psicoterapeuta, psicoanalista membro associato della SPI e dell'IPA, con una specifica formazione nell'analisi di bambini e adolescenti.

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